Strano fenomeno di nemesi storica alla procura di Milano, dopo le condanne di Piercamillo Davigo, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Potrebbe infatti succedere che lo stesso ufficio decida di chiedere di processare anche l’ex procuratore Armando Spataro, come richiesto da un esposto del giudice Andrea Padalino, visto che la gip di Brescia nel trasferire gli atti a Milano per competenza, non ha accolto la richiesta di archiviazione da parte del pm.

L’accusa riguarda una volta di più il comportamento di pubblici ministeri, in questo caso il procuratore capo di Torino degli anni scorsi Spataro, la sua aggiunta Anna Maria Loreto e un gruppo di sostituti, accusati dal collega Padalino, processato e assolto in un processo per corruzione, di aver occultato prove a favore dell’indagato.

Vecchio vizio, vien da dire, ammesso che si arrivi alle prove, come è capitato nel processo di primo grado che ha condannato alla pena di otto mesi due giorni fa per rifiuto di atti d’ufficio nel processo Eni, Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale. Reato grave anche sul piano della reputazione del singolo pubblico ministero, perché dimostra l’affezione a un’ipotesi, a volte l’accanimento di chi conduce le indagini, disposto a tirar dritto sulla propria strada anche a costo di violare la legge.

Ma l’obbligo di cercare anche le prove a favore dell’indagato non fa parte di quella famosa “cultura della giurisdizione” del pm tanto invocata dal sindacato delle toghe ogni volta che protesta contro la proposta di separazione delle carriere?

Del resto, ogni volta in cui si chiede alla Anm di citare qualche esempio in cui il comportamento di un pm si sia spinto fino a trovare i famosi elementi a favore dell’indagato, la risposta è sempre un colpevole silenzio, perché questi casi non esistono. Troppo spesso si assiste invece alla violazione dello stesso principio, anche se è difficile dimostrarlo.

Il caso del processo Eni è stato clamoroso, anche se non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando per ora solo di una condanna di primo grado nei confronti dei due pm. Uno dei quali, Spadaro, in questo momento è transitato verso la procura europea Eppo, mentre De Pasquale è rimasto a Milano, negli stessi corridoi del quarto piano del palazzo di giustizia, dove non ricopre più il ruolo di aggiunto del procuratore capo Marcello Viola, dopo il declassamento deciso dal Csm che ha usato parole molto severe nei suoi confronti.

Nel processo che si è celebrato a Brescia è emerso il fatto che i rappresentanti dell’accusa intendessero tutelare a ogni costo il principale teste dell’accusa, l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, anche quando appariva palese la sua scarsa genuinità, la sua buona fede, addirittura. Non fu portata al processo una videoregistrazione in cui il manager minacciava estorsioni nei confronti del colosso petrolifero, né prove di falsificazioni che avrebbero evitato di tenere in sospeso l’azienda per otto anni per arrivare comunque all’assoluzione di tutti i 15 imputati, a partire dal numero uno di Eni, Claudio Descalzi e del suo predecessore Paolo Scaroni.

Senza trascurare poi quel brutto episodio della “polpetta avvelenata” che avrebbe portato ad astenersi il presidente del collegio giudicante nel processo, Marco Tremolada, se fosse stata ammessa la testimonianza che lo giudicava “avvicinabile”, come un qualunque mafiosetto. Strano fu, in quel caso, anche il comportamento del procuratore capo Francesco Greco, grande sponsor di De Pasquale tanto da cucirgli addosso l’abito su misura della responsabilità di un dipartimento internazionale che tanto malumore aveva creato tra i suoi colleghi. Il procuratore, invece di gettare nel cestino della carta straccia l’evidente provocazione, aveva inviato la testimonianza della polpetta velenosa a Brescia. Dove per fortuna fu archiviata. Però, a proposito di metodi.

Proprio a Brescia, diventata crocevia delle inchieste più delicate, come quella che ha portato anche alla condanna in due gradi di giudizio di Piercamillo Davigo per la diffusione di atti giudiziari riservati, è approdato nei mesi scorsi anche l’esposto di Andrea Padalino, oggi giudice al tribunale civile di Vercelli, ma ieri pm a Torino, e 30 anni fa giovanissimo gip a Milano nelle inchieste su tangentopoli. Il magistrato era stato accusato dal suo superiore Armando Spataro, oggi in pensione, di corruzione per aver forzato la mano nel farsi assegnare fascicoli su inchieste che riguardavano persone da cui avrebbe in seguito ricevuto vantaggi personali.

Come la legge imponeva con l’articolo 11 del codice di procedura penale, l’inchiesta fu trasferita alla procura di Milano, dove il caso fu assegnato al pm Eugenio Fusco e all’aggiunta Laura Pedio. Secondo Andrea Padalino due furono le violazioni dei suoi diritti. Prima di tutto perché la procura di Milano rimaneva in realtà “inerte”, mentre i collegi torinesi, con il trucco denunciato di recente anche dal ministro Nordio, quello del “fascicolo clonato”, trattenevano una parte dell’inchiesta sui coimputati di Padalino.

Sarebbe stato Spataro, in violazione della legge, il vero dominus dell’inchiesta. E poi, ed ecco il motivo per cui l’esposto non è stato archiviato, il procuratore di Torino avrebbe occultato due relazioni dei diretti superiori del magistrato indagato, in cui lo scagionavano totalmente, assicurando che le assegnazioni dei fascicoli si erano svolte in modo regolare. Perché le due relazioni non furono consegnate per tempo da Spataro ai colleghi milanesi titolari dell’inchiesta? E questa la domanda fondamentale che rimane aperta, mentre l’altra parte dell’esposto è stata già archiviata.

Si vedrà. Certo è che, a parte ogni singolo caso, su cui si dovrà pronunciare qualche giudice, l’allarme lanciato dal guardasigilli su “fascicoli clonati” e “fascicoli virtuali” è sufficiente ad accendere un faro anche sui comportamenti dei magistrati più insospettabili.