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Come un’orda selvaggia e con violenza inaudita hanno invaso e saccheggiato, distrutto e sventrato, colpendo i simboli della democrazia brasiliana, le cupole di cemento del Congresso, il cubo di vetro del Tribunale supremo federale e il rettangolo di marmo del Planalto, il palazzo dove lavora il presidente, tutte opere ideate dal genio di Oscar Niemeyer, l’architetto modernista che disegnò la “futuristica” capitale Brasilia.
All’interno degli edifici i mobili e le scrivanie vengono buttati giù dalle rampe di scale, i cassetti rovesciati per terra, se la prendono con i mosaici e i quadri alle pareti che sono vandalizzati, ce n’è anche per il busto di Joaquim Nabuco, giurista liberale e abolizionista che viene fatto a pezzi. Tutti o quasi con il proprio smartphone a inondarsi di selfie, a immortalare con grandi sorrisi la prodezza in uno stridente contrasto tra la gravità dei fatti commessi e la cialtroneria di una foto ricordo. «In nome di Gesù la guerra e cominciata!», urlano i più esagitati. Tutto senza precedenti nella storia del Paese, ma con un filo rosso (o forse nero) che unisce Brasilia e Washington.
L’assalto alla piazza dei Tre poteri da parte dei seguaci dell’ex presidente Jair Bolsonaro non può infatti non ricordare nei minimi dettagli l’attacco di Capitol Hill del 6 gennaio 2021 a parte dei sostenitori di Donald Trump di cui sembra un inquietante remake. Stesse modalità di adunata (il tam tam via internet), stessa furia devastatrice, stessa negligenza, per non dire di più, da parte degli apparati di sicurezza che permettono ai manifestanti di penetrare in tranquillità dentro i palazzi del potere, E stessa improbabile armata Brancaleone di maschi sovrappeso che mette in scena un tentativo di Colpo di Stato con la leggerezza di una scampagnata unita a punte di autentico folklore, come i cappelli di alce da capo indiano dei Trump boys ritratti mentre depredano l’ufficio della speaker Nancy Pelosi. A Brasilia in molti indossavano la maglietta della nazionale verde-oro o di altre squadre di calcio, berretti, tute da ginnastica, alcuni brandivano simboli religiosi.
Se il blocco di potere ostile al presidente socialista Lula è rappresentato da ampi settori dell’esercito e della magistratura, dai grandi imprenditori dell’agrobusiness, dall’articolata galassia dei predicatori evangelici che si ispira alla destra religiosa statunitense, in piazza si è visto soprattutto molto popolo, o piuttosto “gente” comune, ceti sociali medio bassi che vivono in primo piano la crisi economica, le forti disuguaglianze tra le classi e l’insicurezza cronica delle città, interpretando un sentimento diffuso di odio verso la sinistra, alimentato dal complottismo e dalle fake news che i media vicini a Bolsonaro veicolano con grande efficacia in una nazione politicamente spaccata a metà. E che non vogliono accettare la sconfitta elettorale come se le regole democratiche non fossero più valide, perché l’obiettivo non è più il rispetto delle norme di convivenza civile, ma l’annientamento dell’avversario.
Viene da chiedersi, tralasciando le enormi differenze tra i due Paesi, quali siano gli elementi che accomunino gli Stati Uniti e il Brasile, dal punto di vista sociale e politico. Non può essere casuale che entrambi adottino il presidenzialismo, un sistema in cui la figura del Capo di Stato produce un effetto polarizzante nell’elettorato, con le campagne elettorali mirate alla minuziosa demolizione del nemico e con il potere concentrato in larga parte nell’esecutivo al di là delle importanti prerogative del Congresso. Questa mancanza di mediazioni e di corpi intermedi nella normale dialettica politica può permettere a personaggi come Trump e Bolsonaro di innescare una dinamica tossica e incosciente, in grado di sobillare e mobilitare la povera gente contro gli stessi i fondamenti della democrazia. Che mai come in questo decennio “populista” cominciato con la Brexit ci è sembrata fragile e in balia degli elementi. Non più messa in pericolo dai storici suoi antagonisti esterni, ma colpita al cuore da una crisi che lei stessa ha generato.