A breve, la Corte europea dei Diritti dell’uomo si occuperà nuovamente dei rapporti tra processo penale e procedimento di prevenzione, a seguito del ricorso presentato dai signori Cavallotti, già imputati per partecipazione mafiosa e assolti con sentenza definitiva, ma, nell'ambito del parallelo procedimento di prevenzione, destinatari di confisca dei beni, in quanto “pericolosi qualificati”.

I Cavallotti si sono pertanto rivolti alla Cedu che, ritenendo ricevibile il ricorso, ha chiesto all’Italia di rispondere, entro il 13 novembre, a precisi quesiti, la cui lettura fa ritenere che la Corte di Strasburgo non arretrerà sui principi espressi quando, decidendo sul caso De Tommaso/ Italia, aveva assestato al sistema quello che, ai più avveduti, era sembrato un colpo formidabile.

Nel 2017, infatti, i giudici europei avevano dettato un principio destinato ad avere ricadute molto più vaste dell’angusto ambito del casus decisus, scrivendo che le norme in materia di prevenzione, pur non avendo natura penale, erano tuttavia di matrice sanzionatoria e, dunque, soggiacevano – ai fini di quello scrutinio – ai principi di accessibilità del loro contenuto e di prevedibilità della reazione ordinamentale.

In molti avevano salutato quella decisione come un approdo iniziale, ma decisivo, nel percorso di allineamento delle misure di prevenzione agli statuti costituzionali e convenzionali delle pene, secondo una assimilazione concettuale che si presentava frutto ineludibile di quelle modifiche legislative che avevano snaturato le prime.

Con il “pacchetto sicurezza” del 2008, infatti, era stata introdotta la possibilità di irrogazione della confisca di prevenzione disgiunta, rispetto alla misura personale. Riforma che aveva svincolato la ablazione da qualsiasi prognosi di futura pericolosità del proposto, così privandola della sua – apparentemente irrinunciabile – natura preventiva per avvicinarla ad una reazione ordinamentale di tipo più tipicamente punitivo/ sanzionatorio.

Da allora, più volte il Giudice Convenzionale, la Cedu appunto, era stato chiamato a pronunciarsi sulla rispondenza di un simile istituto ai principi fondamentali della Convenzione europea dei Diritti umani e, tutte le volte, era rimasto persuaso dalle argomentazioni del governo italiano, che aveva perorato l’irrinunciabilità della prevenzione a fronte di peculiari fenomeni criminali che imperversavano nella Nazione e, sotto altro aspetto, aveva sostenuto la perdurante natura preventiva degli strumenti reali, negandone la natura di actiones in rem.

La sentenza De Tommaso, partendo dal quesito devoluto, aveva invocato sulla prevenzione un postulato fondamentale del principio di legalità, così da restringere, significativamente, quell’area di indefinita deregolamentazione che si pretende governi la materia. Il concetto di prevedibilità della sanzione, infatti, non è altro che la affermazione del principio del nulla poena sine praevia lege: non si può prevedere una sanzione che, al momento della condotta, non sia già consacrata nella Legge.

Il monito della Corte europea avrebbe dovuto apparire subito di portata copernicana, avendo aperto una sorta di osmosi tra procedimento penale e di prevenzione, ma la giurisprudenza domestica ha adottato un approccio conservativo al problema posto dal giudice convenzionale, “salvando” le misure di prevenzione, sia pure con i timidi distinguo della sentenza 24/ 19 della Corte costituzionale.

Un atteggiamento in apparenza ossequioso dei richiami europei, ma in realtà affetto dalla più profonda sordità: troppo utile, la prevenzione, per rinunciarvi o anche solo per adattarla allo statuto minimo delle garanzie di ogni strumento punitivo. Meglio continuare a contrabbandarla per un procedimento sanzionatorio di natura amministrativa e quindi, ad esempio, caratterizzato dalla retroattività delle norme di sfavore e persino della loro interpretazione. Uno smacco, a ragionarci, al dictum della sentenza De Tommaso, che aveva predicato, almeno, il requisito della accessibilità del precetto e della prevedibilità della sanzione.

Anche per questo, forse, con l’ordinanza resa dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nel caso 29614/16 (Cavallotti/ Italia, appunto) siamo arrivati al redde rationem, con la formulazione nei confronti del governo di tre macro- quesiti in grado di sgretolare il sistema: 1) se una misura di prevenzione presuppone l’accertamento della colpevolezza e se, in assenza di una formale condanna, ciò violi la presunzione di innocenza; 2) se la confisca di prevenzione sia assimilabile ad una pena; 3) se la confisca di prevenzione sia basata su una disposizione di legge prevedibile.

Limitando l’esame, in questo scritto, alla prima domanda, la Corte europea sembra, dal punto di vista pratico, avallare la necessaria pregiudizialità penale, interpellando il governo sulla possibilità di affermare la colpevolezza del proposto ( cioè il destinatario delle misure) – secondo le peculiari disposizioni, sul punto, del Testo unico – in assenza di una formale sentenza di condanna. Il quesito mina, nelle sue potenzialità, la pretesa della prevenzione, sempre più evidente, di farsi binario parallelo e alternativo rispetto al processo penale, con un accertamento che, pur destinato ad esplicare gli stessi effetti ( specie sul versante della ablazione patrimoniale), viene presentato come un minus rispetto a quello ordinario.

Ma è nel secondo inciso che il quesito, pure in forma quasi implicita, dimostra la sua reale dirompenza, invocando anche nel procedimento di prevenzione la presunzione di non colpevolezza, garantita dall’articolo 6, comma 2 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo e, in Italia, dall’articolo 27 comma 2 della Costituzione. Presunzione che si traduce in una regola di giudizio culturalmente distante da un procedimento di chiaro aspetto inquisitorio e che segna un deciso allineamento (che gli ulteriori quesiti posti dalla Cedu contribuiscono ad affinare) del giudizio di prevenzione agli statuti costituzionali e convenzionali del processo penale. Forse, in futuro il sistema della prevenzione, candidato da tempo a sostituire l’accertamento e la sanzione penale, non potrà più godere della asistematicità che ne ha fatto un paradigma delle “terribilità”.