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C’è qualcosa di tossico, di patologico, nel rapporto tra la sinistra italiana e la magistratura. Una sindrome di Stoccolma che Giuliano Vassalli smascherava già nel 1987 con una frase tagliente come un bisturi: «Il Partito Comunista, attraverso una lunga opera sottile, è riuscito a legarsi a gran parte della magistratura». Non un’alleanza politica, ma un vero e proprio abbraccio soffocante, una sudditanza psicologica che si è trasformata in abitudine. Una sinistra incapace di emanciparsi, una sorta di ancella devota di un potere giudiziario sempre più corporativo e autoreferenziale.
E così eccoci qui, nel 2024, a discutere ancora della separazione delle carriere come se fosse un attentato alla democrazia. Distinguere il pubblico ministero dal giudice non è solo una questione di buon senso, è una necessità costituzionale. Garantire una vera terzietà dovrebbe essere naturale come respirare. E invece no, perché c’è un pezzo di magistratura – e con lei la sinistra – che vede nella riforma non un’opportunità, ma una minaccia.
Eppure, lo diceva Giovanni Falcone, mica un populista da bar: «La regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice».
Ma la sinistra ha deciso di ignorare anche lui, accodandosi all’Associazione Nazionale Magistrati come se fosse l’ultimo baluardo della virtù democratica. Perché? Perché rompere quell’asse significherebbe rinunciare all’unica stampella politica rimasta: la magistratura engagé, quella che predica giustizia sociale dai palchi delle aule di tribunale.
Ma a dir la verità c’è un problema più profondo, ed è l’idea stessa di legalità che la sinistra ha sposato dai tempi di Tangentopoli. Una legalità priva di diritti, feroce e senza sfumature. Si agitano le manette, si osannano i tribunali come templi della pubblica morale, ma si dimentica il garantismo. E allora, che legalità è? Una legalità monca, vuota. Una legalità che sa di vendetta, non di giustizia.
Giuliano Vassalli, con rara e rigorosa lucidità descriveva il potere pervasivo della magistratura: «È il più grande gruppo di pressione mai conosciuto in Italia. Non c’è stata una sola legge in materia di giustizia che non fosse ispirata e voluta dalla magistratura». Non era un’accusa vaga, era un’analisi chirurgica. «Un Ministro della Giustizia entra al dicastero e si trova circondato da magistrati», spiegava. «Occupano ogni posizione: contabilità, opere pubbliche, persino l’ingegneria penitenziaria. Non lasciano spazio a nessun altro».
E quando il giornalista del Financial Times Torquil Dick Erikson, sbalordito, gli chiese se davvero il legislatore italiano non fosse sovrano, Vassalli rispose con glaciale semplicità: «Esatto. È una sovranità limitata, come nei Paesi dell’Est europeo. Limitata dalla magistratura».
C’è anche un declino culturale che spiega tutto questo. Un tempo, la sinistra aveva come intellettuali di riferimento Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli, Leonardo Sciascia. Oggi? Oggi i nuovi sacerdoti sono Marco Travaglio e Andrea Scanzi, campioni di un giustizialismo grottesco e vagamente di destra. Hanno trasformato il garantismo in una bestemmia, ridotto la giustizia a un’esibizione da talk show.
La verità è che la sinistra deve scegliere. Se continuare a essere l’ancella di una magistratura che confonde l’indipendenza con l’arbitrio e il potere autoreferenziale, o riscoprire una vocazione riformista che non tema di toccare anche i santuari più intoccabili. La separazione delle carriere non è un attacco, è un’opportunità. È una riforma che potrebbe restituire credibilità a un sistema opaco, ma anche liberare la sinistra da un legame che la inchioda a un ruolo subalterno. Perché una legalità senza diritti non è giustizia. È solo il rumore vuoto di un potere che si illude di essere eterno.