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Mickey e Mallory se ne andavano in giro per il loro soutwest lisergico seminando cadaveri: 52 in tre settimane. Uccidevano a caso, per piacere, per noia o per fastidio, belve imbizzarrite, grotteschi come cartoon. Metafora un po’ tagliata con l’accetta di una nazione impazzita e senza bussola che sembra sprofondare nel culto fanatico e primitivo delle armi.
Verso la metà degli anni 90 la coppia protagonista del road movie di Oliver Stone, Natural born killer, finisce sotto accusa: non nel climax del film, ma nella vita reale.
Era successo che il 6 marzo 1995, pochi mesi dopo l’uscita nelle sale, Ben Darras e Sarah Edmondson, due adolescenti dell’Oklahoma, si imbottiscono di Lsd, salgono in macchina e sconfinano in Mississippi dove freddano con due colpi di calibro 38 in testa Bill Savage, un uomo d’affari incontrato per caso in un drugstore sull’autostrada. Poi continuano la folle corsa verso Lousiana, si fermano in un minimarket ed esplodono una raffica contro la cassiera Patsy Byers, che rimarrà paralizzata per il resto della vita.
Dopo l’arresto la polizia scopre che le camerette di Edmonson e Darras erano tappezzate dai poster di Mickey e Mallory e dalle locandine del film verso cui avevano sviluppato un’ossessione morbosa, un classico caso di emulazione. I familiari delle vittime fecero causa al regista e alla Time Warner sostenendo che la disturbante pellicola fosse la causa primaria di quegli omicidi insensati. A denunciare Stone anche il noto scrittore di legal thriller John Grisham, sconvolto dall’assassinio di Savage che era suo amico personale. Per gli avvocati di Patsy Byers esisteva «un chiaro nesso casuale tra il film e gli omicidi» e Stone doveva pagare in quanto «responsabile di quei crimini come i pazzi che hanno premuto il grilletto».
Natural Born killer entra anche una delle stragi più celebri ed efferate degli ultimi decenni, quella alla Columbine high school del 20 aprile 1999; gli autori del massacro, Eric Harris e Dylan Klebold, utilizzavano l’acronimo “NBK” per firmare i propri deliri. Anche il sistema dell’informazione punta il dito contro la pellicola, in particolare i media di orientamento conservatore che dipingono Stone come «cattivo maestro», parlando del suo film come un’opera «ripugnante e satanica». I tribunali però danno ragione a Oliver Stone e alla Time Warner, respingendo tutte le accuse e accogliendo la linea della difesa che si appella al Primo emendamento che protegge la libertà d’espressione. La stessa, presunta relazione tra gli omicidi e la pellicola viene cassata dai giudici che sottolineano «i problemi esistenziali e sociali molto più profondi» che hanno spinto quei ragazzi apparentemente normali a trasformarsi in brutali assassini.
Anche in Italia, seppur in forme meno truculente, il dibattito sulla cattiva influenza delle fiction sulle giovani generazioni ha il suo filo da tessere. Basti pensare a Gomorra, il film e soprattutto la serie tv e le polemiche che ha innescato. Sotto la lente della critica l’effetto emulazione, gli atteggiamenti dei giovanissimi che scimmiottano il linguaggio e la prossemica del boss Genny Savastano e dei suoi scherani, delle baby gang del napoletano con le pistole tenute di piatto sulle foto dei profili social, i pestaggi dei coetanei, il bullismo pseudo camorrista e tutta la prosopopea farlocca. Un fenomeno pressoché identico si è verificato a Roma con Romanzo Criminale, “modello” per migliaia di ragazzini emuli dei vari Libano, Freddo e Dandy; anche dentro il raccordo anulare ci sono stati diversi casi di baby gang che si sono ispirate alla serie. Negli anni in cui Romanzo Criminale abbatteva tutti record di ascolto i tabaccai della capitale vendevano addirittura accendini con i volti degli epigoni cinematografici della Banda della Magliana.
Nessun tribunale italiano però si è mai sognato di censurare queste opere in nome dell’ordine e della pubblica sicurezza o ha mai stabilito un nesso causale tra le serie e la criminalità giovanile. Ci hanno pensato i sociologi, gli psicologi e i commentatori tuttologi dei giornali a puntare il dito contro la “mitizzazione” dei criminali, interpretati da attori in voga e pieni di charme con cui è facile identificarsi. Un po’ come accade nei film sui mafiosi italo-americani di Martin Scorzese o nella violenza grottesca messa in scena nelle opere di Quentin Tarantino.
E come sempre ci si è divisi tra chi sostiene il ruolo nefasto di queste serie sui più giovani e chi al contrario nega qualsiasi rapporto tra violenza rappresentata e violenza reale. Un dibattito vecchio come il mondo a cui apparentemente non c’è soluzione.