ll formale riconoscimento del reato di femminicidio nel codice penale è una scelta sulla quale femministe, reti e centri antiviolenza discutono da tempo, con posizioni anche differenti. Personalmente, a partire da un’iniziale contrarietà, più da giurista che da femminista, lavorando per anni al fianco di operatrici dei centri antiviolenza, magistrati, avvocate mi sono convinta della sua possibile utilità e per questo ho salutato con favore il disegno di legge presentato l’8 marzo dal governo Meloni (data per tante ragioni non proprio indovinata).

Un annuncio giunto, dobbiamo dirlo, in un clima difficile per il sistema giustizia, già molto provato dalle scelte pericolose di un esecutivo il cui eccessivo ricorso al diritto penale e i cui attacchi alla magistratura e alle sue prerogative sono davvero senza precedenti. Il testo non è in verità ancora arrivato in Parlamento: parliamo dunque di una proposta ancora embrionale che, nella forma del disegno di legge, dovrebbe consentire le dovute modifiche attraverso il confronto, oltre che tra maggioranza e opposizione, anche con chi opera ogni giorno sul campo.

Ci si chiede: perché ricorrere ancora al diritto penale per contrastare un fenomeno culturale? Non era sufficiente l’aggravante già esistente? Il nuovo reato è costituzionale e risponde agli ineludibili criteri di tassatività e determinatezza previsti dal Codice penale? Non si creerà un diritto penale parallelo?

Il ddl inserisce l’articolo 577-bis nel codice penale per definire la fattispecie del femminicidio come l’uccisione di una donna in quanto donna, come atto di discriminazione o di odio o per limitarne i diritti, la libertà e l’espressione della personalità. È una definizione innovativa perché contiene finalmente il riferimento specifico alla matrice culturale del femminicidio - ovvero l’asimmetria di potere e la volontà di controllo e dominio di un uomo nei confronti di una donna - ma che può e deve essere migliorata per rispondere di più e meglio ai criteri di determinatezza e tassatività.

Per esempio, si potrebbe ragionare della possibilità di eliminare il riferimento a odio e discriminazione e di dettagliare di più la seconda parte della norma. Per quanto mi riguarda, e pensando alle tante sentenze di questi anni, la nuova fattispecie dovrebbe fotografare più che il movente o l’elemento psicologico del reo, la specificità della condotta maschile nella relazione di coppia e gli elementi che la connotano e la riconducono ad un modello fondato sulla cultura della sopraffazione e del possesso.

Un modello dunque non paritario. Lui dominante, controllante, lei vulnerabile e soccombente. Poteva bastare l’aggravante già prevista per l’omicidio consumato in un contesto familiare? Il femminicidio viene per la prima volta definito nel Codice penale, gli si da dignità di fattispecie autonoma. È un salto di qualità enorme e prezioso: significa riconoscere la specificità e insieme la gravità e il disvalore di quella condotta.

In più si consegna agli operatori giudiziari uno strumento operativo importante per meglio ricercare, riconoscere e punire quel comportamento. Si configura così una disparità tra uomini e donne? Non credo, se si considera che a partire dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione e dall’articolo 117 che consente il recepimento delle normative internazionali, a partire dalla Convenzione di Istanbul, sono già previsti nel nostro ordinamento trattamenti differenziati per uomini e donne, al fine di rimuovere gli ostacoli alla effettiva parità e all’uguaglianza sostanziale.

Con il nuovo reato, si fa semmai entrare il pieno riconoscimento dei sessi anche nel diritto penale, in contrasto con la sua presunta neutralità che è in realtà espressione di una soggettività quasi esclusivamente maschile (si pensi all’articolo 575 c.p. che definisce l’omicidio dell’ “uomo”, negando la differenza sessuale).

Ma veniamo all’accusa di panpenalismo che consiste, alla lettera, nella costruzione di fattispecie “artificiose” del diritto penale, finalizzate alla tutela di beni giuridici indefiniti o inesistenti. L’attuale Esecutivo può vantare senz’altro su questo un primato negativo, vedi il ddl sicurezza. Nel caso del reato autonomo di femminicidio, invece, il bene tutelato è evidente: la vita di una donna rispetto a una condotta maschile specifica motivata dal possesso e dalla volontà di dominio. Se poi si vuole aprire un dibattito sulla cancellazione dell’ergastolo, anche per recuperare finalmente il principio della funzione rieducativa della pena, io sarei più che favorevole, a patto di non limitarsi al casus belli del femminicidio.

Il disegno di legge contiene poi una serie di altre norme preziose, tra cui il rafforzamento delle misure di protezione della vittima, della quale viene potenziato il ruolo. Si prevede che per molti reati violenti il Pm ascolti personalmente la persona offesa, se questa ne fa richiesta. È una norma che va nella direzione giusta, ma la cui applicazione ad oggi è praticamente impossibile se non controproducente, senza prevedere più giudici e più risorse.

In caso di patteggiamento, il giudice dovrà informare la donna vittima, che potrà fornire proprie deduzioni, di cui il magistrato dovrà dare conto nella decisione finale. La vittima dovrà inoltre essere informata anche nel caso di concessione e permessi premio, sconti di pena o altro. Infine, viene resa obbligatoria la formazione e la specializzazione dei magistrati, con l’assunzione del punto di vista delle donne vittime e dei centri antiviolenza. Quanto al rischio di “creare un diritto penale parallelo” come è accaduto per il contrasto alle mafie, penso invece che il nuovo reato potrebbe essere utile proprio per ottenere lo stesso cambio di passo che si verificò con l’introduzione dell’articolo 416 bis, che segnò la condanna finalmente corale e condivisa del fenomeno.