PHOTO
«Nell’arco temporale compreso tra il 2017 (anno a partire dal quale vengono avviati i primi procedimenti penali nei confronti dei membri di Ong tra cui quello nei confronti dell’equipaggio della Iuventa) e settembre 2023, il numero dei dispersi supera le 11 mila unità». Basterebbe questo passaggio della memoria depositata ieri dagli avvocati Nicola Canestrini, Francesca Cancellaro e Alessandro Gamberini per capire l’effetto dell’indagine sulla Iuventa. Un’indagine che rappresenta il primo tentativo - sconfessato anche dall’accusa, che ha chiesto il non luogo a procedere - di trovare un legame tra le Ong e i trafficanti, in modo da riempire di senso l’espressione propagandistica “taxi del mare”. Ma le prove, stando a quanto affermato mercoledì dalla stessa procura di Trapani, non ci sono. E per tentare di trovare sono trascorsi sette anni, durante i quali migliaia di migranti sono morti in mare e una nave che avrebbe potuto salvarli è rimasta ad arrugginire.
Il tutto costando allo Stato 3 milioni di euro. In mezzo ci sono leggi e decreti che hanno tentato di azzoppare i volontari disposti a uscire in mare per aiutare i disperati partiti alla ricerca di fortuna a bordo di bagnarole marce. Come quelli morti a pochi metri dalla spiaggia di Cutro, che forse avrebbero potuto essere salvati. L’ipotesi della procura è sintetizzabile nell’idea secondo cui tra il 2016 e il 2017 l’equipaggio della Iuventa, «anziché effettuare veri e propri soccorsi di persone in pericolo», agisse «di concerto con le reti dei trafficanti libici, organizzando “consegne concordate” in acque internazionali di migranti che successivamente venivano trasportati sul territorio italiano». Agli indagati è stato contestato anche il fatto che tali operazioni garantivano loro «maggiore visibilità pubblica e mediatica, con conseguente incremento della partecipazione – anche economica – dei propri sostenitori». Un’ipotesi infamante, secondo la difesa, in linea con la narrazione pubblica di quegli anni. «Per molte delle sue caratteristiche il processo alla Iuventa rimarrà un unicum si legge nella memoria -. Ad esempio, è l’unico procedimento nel quale il sequestro preventivo di un’imbarcazione soccorritrice risulta ancora in essere dopo sette anni».
I legali mettono in fila tutte le norme che impongono l’obbligo di intervenire in soccorso dei migranti in mare, alle quali si aggiungono le numerose sentenze intervenute nel frattempo. Dal caso Mare Jonio a quello Open Arms, passando per la vicenda di Carola Rackete, sono anche i Tribunali a sostenere che le Ong sono “ambulanze del mare” e non “taxi”. Anche perché a seguito dell’interruzione, nel 2014, dell’operazione Mare nostrum (disposta dopo il tragico naufragio del 3 ottobre 2013 e accusata da più parti di incentivare partenze e sbarchi), i naufragi sono aumentati, sancendo il fallimento del sistema dei soccorsi degli Stati. Da qui l’indispensabilità delle Ong per la gestione dei soccorsi in mare, coprendone quasi la metà. Ma se in una prima fase tale ruolo veniva visto positivamente, l’avanzata delle destre e del M5S hanno contribuito a ribaltare la percezione: le Ong, all’improvviso, sono diventate brutte e cattive. «Sono molteplici i fattori che hanno contribuito a questo passaggio trasformativo in quel particolare frangente temporale - si legge nella memoria -: l’intensificarsi di campagne politico- mediatiche anti- Ong, la pubblicazione del Rapporto Risk Analysis for 2017 dell’Agenzia Frontex nel quale le Ong vengono presentate come pull factor anche in ragione della loro presenza attorno alle 12 miglia dalla costa libica, il Memorandum d’intesa Italia- Libia firmato a Roma il 2 febbraio 2017 che ha legittimato e valorizzato esponenzialmente la cooperazione tra i due Stati, la Commissione parlamentare sull’attività delle Ong e, da ultimo, la scelta di prevedere un “codice di condotta per le Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare” ( luglio 2017)». Fatti ai quali sono seguiti i decreti Salvini, quello Lamorgese e infine quello Piantedosi, tutti nell’ottica di togliere ossigeno alle Ong. La critica «riguarda il fatto che la loro attività non consisterebbe, semplicemente, nel soccorrere persone in pericolo, ma comprenderebbe, a monte, il pattugliamento delle acque marittime, alla ricerca di imbarcazioni da soccorrere», con lo scopo «di aprire corridoi per l’ingresso (irregolare)», di fatto incentivando «le partenze delle coste nordafricane».
Un presupposto falso, però: «Tale costrutto - scrivono gli avvocati - non è fondato giuridicamente e soprattutto non determina alcuna responsabilità penale in capo ai membri degli equipaggi». In primis, «la libertà di navigazione in alto mare» è un diritto internazionalmente riconosciuto e «nessun trattato contempla un divieto espresso di condurre attività di ricerca prodromica al soccorso». Anzi, le convenzioni Solas e Sar chiariscono «che le questioni relative alla salvaguardia della vita in mare hanno la precedenza rispetto a quelle relative allo status giuridico dei naufraghi».
Per quanto riguarda l’argomento del “pull factor”, «è stato accertato come non vi sia corrispondenza tra maggiore presenza delle navi delle Ong in mare e aumento del numero delle partenze, quest’ultimo dato essendo prevalentemente collegato alle previsioni metereologiche e a fattori geopolitici (in particolare, situazioni di instabilità nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo) che nulla hanno a che vedere con l’intensità delle attività di soccorso». Quello che invece è certo è l’obbligo dei comandanti delle navi - pubbliche o private - «di prestare immediatamente soccorso alle persone che si trovano in condizioni di pericolo, indipendentemente dal modo in cui siano venuti a conoscenza della situazione». Oggi e domani si tornerà in aula con i legali di Save the Children e Medici Senza Frontiere, tra i quali l’avvocata Alessia Angelini. La sentenza è prevista il 19 aprile.