C’è una quiete disarmante, quasi spiazzante, nelle parole di Gino Cecchettin. L’uomo, il padre che ha vissuto il più doloroso degli oltraggi, la perdita di sua figlia, ha trasformato quel dolore in militanza, in gesto politico, in battaglia contro i femminicidi.

Non si è perso nell’abisso in cui ognuno di noi sarebbe precipitato, né ha ceduto alla rabbia consolatoria della “terribilità della giustizia”, come direbbe Leonardo Sciascia. Non ha cercato la catarsi nell’ergastolo comminato a Filippo Turetta, né si è abbandonato al sollievo di una condanna così dura, decisiva, definitiva come solo l’ergastolo può essere.

Al contrario, Cecchettin ha avuto il coraggio e la lucidità di capire e dichiarare che quel dolore non può trovare soluzione nell’orizzonte di un’aula di tribunale, né lenire la sua ferita al suono di una sentenza di ergastolo. E si tratta di una postura che fa vacillare l’intero edificio panpenalista su cui, negli ultimi anni, si è edificata la narrazione giustizialista: quella che pretende di affrontare ogni complessità umana, ogni ingiustizia, con l’unico metro della severità della pena.

Una narrazione che riduce il diritto a vendetta codificata, illudendo tutti noi che il dolore altrui possa guarire il proprio. Le parole di Cecchettin brillano ancora di più se le mettiamo accanto al conformismo di chi esulta per quell’ergastolo o si attarda a discutere con inutile cinismo sulla mancata aggravante della crudeltà.

Un coro sinistro che confonde la pena con la vendetta e fa terra bruciata dell’articolo 27 della Costituzione: “La pena deve tendere alla rieducazione del condannato”, ricordate? L’esatto opposto di quel desiderio primordiale che cerca appagamento nel dolore.

Cecchettin, invece, con disarmante lucidità, smonta questo inganno. Ci costringe a guardare in faccia l’insostenibilità di una giustizia trasformata in arma: “Abbiamo perso tutti come società”, dice. Abbiamo perso quando un ragazzo ha pensato di poter possedere la vita di una ragazza, privandola della libertà, fino a negarne l’esistenza. E continuiamo a perdere se crediamo che un ergastolo possa essere risarcimento, che il dolore di una famiglia possa evaporare tra le pieghe del codice penale.

Non c’è indulgenza nelle parole di Cecchettin. Nessuna pietà gratuita verso chi ha compiuto l’irreparabile. Ma c’è una consapevolezza più alta, che sradica l’idea stessa della giustizia-vendetta. Non c’è giudice, né difensore, né pubblico ministero che possa restituire ciò che gli è stato sottratto in quel modo.

In un’epoca in cui il populismo giudiziario ha eretto la pena a totem, a simbolo salvifico di ordine e giustizia, la voce di Cecchettin risuona come una sfida. Una lezione scomoda. Ci ricorda che la nostra civiltà non si costruisce sulla soddisfazione dell’istinto vendicativo. Semmai è l’esatto contrario. E in questa consapevolezza di una giustizia che non può lenire la rabbia e il dolore, c’è forse il più grande insegnamento di civiltà.