Certo, alcune visioni possono apparire inattuali. Converrà il Presidente Santalucia che un assetto ideologico e culturale quale era quello dell’indissolubile “unità spirituale” della magistratura, evocato da Dino Grandi, con il suo Ordinamento giudiziario del 1941, resta legato ad uno stato autoritario e illiberale. Un Ordinamento persino nemico della separazione dei poteri, assai lontano dai principi di uno stato liberaldemocratico.

Non può certo dirsi inattuale il pensiero di Giovanni Falcone, travolto da inopportune polemiche, non perché evocato, assieme a quello di molti altri illustri giuristi e pensatori moderni, a supporto della necessità della riforma della separazione delle carriere, ma proprio perché se ne è negata la verità. Se si deve dunque parlare di “discutibile espediente” questa accusa deve essere rivolta, non a chi ha sommessamente ricordato le parole di quel magistrato, ma a chi al contrario le rinnega, dicendo che le sue espressioni sono state addirittura inventate o quanto meno travisate.

Non è dato comprendere come mai quel sistema ordinamentale, così lontano dalla nostra visione liberale dello Stato, debba essere difeso strenuamente e quello sotteso alle parole di Falcone confinato ai limiti dell’eversione democratica.

Quando il Presidente Santalucia afferma che citare le parole di Falcone sarebbe “mistificante opera della propaganda” dimentica di spiegare in cosa consisterebbe l’espediente e in cosa si risolverebbe la mistificazione, visto che le citazioni di Falcone sono tratte da libri, interviste e pubblici interventi. È chiaro l’imbarazzo nel dover ammettere che Giovanni Falcone, non solo era favorevole alla separazione delle carriere, ma aveva colto, prima di molti altri, il nesso insuperabile che legava la separazione delle due magistrature, giudicante e requirente, alla introduzione nel nostro paese del modello accusatorio e dunque, al tempo stesso, il legame che avvince l’unitarietà di pubblici ministeri e giudici al modello inquisitorio. A quel processo inquisitorio intorno al quale era costruito quell’ordinamento

superato del Guardasigilli Dino Grandi. Non è facile, infatti, per chi oggi demonizza i sostenitori di questa riforma, trovarsi faccia a faccia con le opinioni di Giovanni Falcone, dotate di una chiarezza senza pari.

Quella dell’avvocatura non è una “prospettiva irenica”, ma una concreta visione tratta dall’esperienza maturata in oltre trent’anni, assieme ai cittadini di questo Paese, di mancata attuazione dell’accusatorio. “Irenica” è piuttosto la visione di chi si ostina a vedere nel pubblico ministero una “parte imparziale” e nell’attribuire al pubblico ministero, piuttosto che al giudice, il ruolo di “garante dei diritti” dell’imputato. Non volete sentir parlare di Giovanni Falcone solo perché le sue parole sono legate al quel rifiuto dell’unitarietà delle figure dei giudici e dei pubblici ministeri, come quando Falcone sconsolatamente ricordava di essere additato da molti come un nemico: “chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’esecutivo” ( La Repubblica del 3 ottobre 1991). “Discutibile espediente” è negare questa verità, non ricordarla al Paese. L’unitarietà delle magistrature è diventato un “dogma” e chi lo nega un “eretico”.

Ne discende inevitabilmente che, in un simile contesto, la posizione di Falcone non possa essere gestita laicamente. Verrebbe meno la coerenza di questa costruzione ideale nella quale non ci sono contraddittori, ma solo nemici della democrazia e attentatori all’indipendenza della magistratura.