Qualche giorno fa ho letto una intervista a Giancarlo De Cataldo. In una intervista è spesso difficile spiegare bene, farsi capire, non semplificare troppo fino all’approssimazione. Ma tre risposte mi sono rimaste in testa e non c’è verso di toglierle da lì.

La prima risposta è alla domanda: «Lei scrisse la sentenza di condanna di Scattone e Ferraro per l’omicidio di Marta Russo. Di cui, però, nel suo ultimo libro non c’è traccia». Risposta: «Nell’arco della mia vita da magistrato, tutte le volte in cui ho avuto la sensazione che non ci fosse la prova della colpevolezza ho votato o comunque contribuito all’assoluzione degli imputati, anche se erano pessimi figuri. E, mi creda, se qualcuno mi portasse la prova che ho sbagliato a giudicare, anche a tanti anni di distanza, sarei pronto a riconoscere l’errore».

Chissà se ha detto davvero «sensazione». Chissà se «pessimi figuri» è una valutazione morale oppure di altra natura e come si arriva a dire di qualcuno che è un pessimo figuro. Gli occhi troppo vicini? Una espressione torva?

Seconda risposta. «Da come parla, non sembra questo il caso». «No. E guardi che già all’epoca del processo le condanne per l’omicidio di Marta Russo furono molto contestate. Come se l’accademia, e in quel caso l’istituto di Storia del diritto romano della Sapienza, fosse un luogo sacro in cui un magistrato non aveva il diritto di mettere il naso. Prima o poi tornerò su quel caso, credo. In passato ho evitato di farlo anche quando si trattava di dovermi difendere da una calunnia».

Molto contestate? In pochi, pochissimi, in quegli anni hanno resistito al fascino bavoso della colpevolezza via TG, allo scambiare un sottopancia per la verità, alla versione fragile dell’accusa. Perfino Corrado Augias si è messo a fare plastici di corridoi e di aule incriminate e non buone argomentazioni.

Io mi auguro che abbia voglia, prima o poi, di riconsiderare quel caso di ormai 27 anni fa. Perché magari questo tempo passato permette di vedere quello che a caldo ci era nascosto o che era più difficile da vedere. Quello che era sembrato logico e razionale e invece era solo una slavina di pregiudizi impossibili da correggere. Un errore giudiziario (in questo caso non riconosciuto ufficialmente) è un disastro per tutti. Per i condannati, ovviamente, ma pure per chi è morto. Perché si perde per sempre la possibilità di trovare il colpevole, perché si indebolisce un organismo fragile com’è quello della giustizia. Perché quel modo di condannare qualcuno ci riguarda tutti.

Terza domanda: «Dorme tranquillo un magistrato in pensione?». «Glielo dicevo prima: se qualcuno mi portasse le prove che qualche volta ho agito male, lo riconoscerei senza difficoltà. Segno che, se mai ho sbagliato, l’ho fatto in buona fede».

Rispetto al caso specifico vorrei domandargli: le pare possibile fondare la condanna su una testimonianza di una persona che per 5 settimane ha detto un’altra cosa? Perché sarebbe complicato ricostruire tutto il caso, ma la sintesi è questa: è la testimonianza di Gabriella Alletto a giustificare la condanna di Giovanni Scattone e di Salvatore Ferraro. Non c’è altro. C’è una perizia sbagliata che porta gli inquirenti dalla stradina dentro alla città universitaria fino all’aula 6, c’è l’idea che se non hai un alibi sei colpevole, non c’è la pistola, non c’è il bossolo, non c’è manco il movente.

Anzi, si passa dal cinematografico (e lunare) delitto perfetto a un colposo. Una testimonianza contraddittoria può davvero bastare? In buona fede? Sono felice che non ci sia intenzione, ma non bastano le buone intenzioni, non bastano mai. Figuriamoci per condannare qualcuno per omicidio.

L’omicidio di Marta Russo è assurdo e terribile. Ma aggiungere una ingiustizia a questo strazio non aggiusta niente, non rimedia, non consola un dolore inconsolabile. Non succede mai forse, nemmeno quando l’accusa è meno fragile e meno evanescente, non per la sua famiglia e per i suoi amici. Ma la legittima e doverosa ricerca del colpevole non può essere confusa con la condanna di qualcuno in questo modo.

Fare il magistrato non è facile, per carità. Non farsi distrarre dalle credenze che si formano quando ancora non abbiamo tutti gli elementi e dalla voglia di trovare i responsabili non è facile. Ma c’è un particolare che ricordo dall’ascolto di ore e ore di processo che mi è rimasto in testa e non c’è verso di toglierlo da lì. Si sente ridere e poi una voce: «Io sarei stato bocciato a quest’esame, indubbiamente». L’esame è quello di logica giuridica e non c’è niente da ridere. Forse, caro De Cataldo, è davvero il momento di tornare su quel caso.