In una recente intervista al Corriere della Sera rilevavo come la capacità della mafia di controllare il carcere e continuare le attività criminali all’esterno fosse diretta conseguenza di alcune scelte di gestione che danno la possibilità ai detenuti più pericolosi e mafiosi di muoversi liberamente.

Secondo l’Osservatorio sulle carceri delle Camere penali, le mie considerazioni “oltre a non essere suffragate… da dati certi”, finirebbero “ per alimentare una pericolosa disinformazione dell’opinione pubblica”, che sarebbe “indotta, così, a coltivare logiche di estrema inciviltà, condensate nelle aberranti frasi del “gettare la chiave”, del “marcire in carcere” o “togliere il respiro ai detenuti”. Il comunicato contiene un difficoltoso tentativo di difendere il regime penitenziario c. d. aperto, attraverso un capovolgimento dei dati sulle criticità che ne sono conseguite.

Tali dati - che mi sono stati trasmessi in via ufficiale dal Garante Nazionale quando ero componente del Csm - non dicono ma urlano che all’indomani dell’introduzione del regime aperto - a partire dal 2012 - vi è stata una impennata di aggressioni, di violenze, di introduzione illegale di telefoni, di atti di autolesionismo e di suicidi. Una oggettiva moltiplicazione di tutte le espressioni di disagio e di sofferenza della popolazione detenuta.

Di tale palmare evidenza non vi è alcun riconoscimento nel comunicato; ma con un contorsionismo concettuale si fa riferimento ad un aumento di eventi critici come conseguenza di una non meglio precisata chiusura delle celle - che sarebbe avvenuta a partire dal 2020 -, della cui effettiva attuazione non vi è traccia, e che è comunque smentita dagli esiti della recente inchiesta di Palermo.

Sarebbe stata molto più lineare l’analisi di ciò che era il carcere nel 2012 - prima dell’esordio del regime aperto - e ciò che è divenuto poi: un luogo nel quale si è perduto il controllo pubblico degli spazi e si è privato di ogni privacy i detenuti più deboli.

Alle regole dello Stato si sono sostituite quelle della autogestione criminale. Al sostegno psicologico e all’accoglienza si sono sostituite - come conseguenza delle celle aperte - le Piazze di spaccio gestite dentro il carcere dalla mafia e la cessione di droga ai detenuti che avrebbero necessità di intervento psichiatrico.

Un annientamento personale che non è stato neppure preso in considerazione dai sostenitori delle celle aperte per valutare l’impennata dei suicidi. Affrettarsi a tenere fuori la gestione mafiosa delle carceri dal disastro del trattamento penitenziario significa offrire una spiegazione semplificata che finisce per coprire le gravi e specifiche responsabilità, facendole annegare in una imprecisata «incapacità di gestione del settore penitenziario e fallimento delle politiche praticate negli anni da tutti i governi, a prescindere dal colore». Il che è semplicemente un modo per assolvere tutti e lasciare le cose come stanno.

Il passo indietro compiuto dallo Stato con quello specifico atto ha travolto i detenuti più umili e disponibili ad accogliere l’intervento sociale e la rieducazione. Chi non comprende questo non ha idea di cosa sia il carcere e aderisce alla favola secondo cui i normali detenuti - gli ultimi - siano felici della introduzione delle celle aperte.

Veniamo al nesso tra l’introduzione della circolare del 2015 indicata nel comunicato (ma non è l’unica) e la mafia. Quella circolare - viene affermato - non riguarderebbe il regime alta sicurezza. Si tratta di una affermazione destituita di ogni fondamento. È vero infatti che la circolare dichiara di rivolgersi soltanto alla media sicurezza, ma in un passaggio - ai limiti della dissimulazione dei suoi effetti - in essa si afferma che i detenuti in alta sicurezza devono stare aperti per 8 ore così come avrebbero già stabilito non meglio precisate autorità europee. Con questo espediente, mentre dichiara di non volersi occuparsi degli A. S., incidentalmente dispone per la prima volta di lasciare aperte per 8 ore le celle dei mafiosi che prima rimanevano chiuse.

Un fatto se vogliamo ancor più grave e significativo è che proprio a partire dal 2015, quando gli eventi espressione del disagio iniziarono ad avere una moltiplicazione geometrica, il Dap ha smesso di produrre e diffondere la sua brochure semestrale sugli eventi critici.

Neanche di questa circostanza qualcuno è stato chiamato a dare una spiegazione. Ma l’aspetto più singolare del comunicato dell’Osservatorio riguarda la presa di distanza dalla questione fondamentale, una mancanza che assomiglia ad una voragine: non c’è nessun tentativo di spiegazione del perché il potere mafioso abbia assunto il controllo delle carceri.

Se il primato dello Stato nelle carceri non si riconosce come urgenza umanitaria, prima ancora che securitaria, indirettamente si rischia di sottovalutare la gravità dell’autogestione che prolifera nel disordine e si finisce per accettare la sostituzione del potere pubblico con il potere criminale. E questa preoccupazione non è quella di una parte - affermazione inaccettabile con la quale si vorrebbe screditare una idea sulla base della sua provenienza - ma dovrebbe essere di ogni cittadino che crede nel rispetto delle persone detenute, e vuol garantire loro una vita migliore e la speranza di uscirne in condizioni che consentano la ricostruzione di una vita. Tutti possono cambiare e possono essere difesi, anche i mafiosi; ma la mafia, con i suoi metodi, non cambia e non può essere chiamata fuori. Se la si fa comandare in carcere, i reclusi stanno male e lo Stato ha perso. Ecco perché la mafia c’entra eccome con i suicidi e con la sofferenza dei detenuti.