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La premier Giorgia Meloni
La logica del “io sono garantista, però…” pare proprio immortale. Anche perché il mondo politico è ormai come quello della salute: non fai la ricerca sul cancro finché non hai un malato oncologico in famiglia, e così non ti accorgi dei tanti “casi Tortora” che coinvolgono uomini e donne di governo o amministratori, finché non capita nel tuo partito. Così, mentre appassiona la discussione sul rinvio a giudizio di Daniela Santanchè, si apre uno squarcio di diretta tv sul Senato, dove Matteo Renzi, che esibisce con orgoglio sul bavero della giacca la coccarda del garantismo, con altrettanta sicumera informa che lui dirà sempre che il sottosegretario Andrea Delmastro “è un condannato”. Sarcasmo? Ma non c’è scampo, la tiritera va avanti da trent’anni.
Dobbiamo ringraziare la rivoluzione politica del procuratore Saverio Borrelli, cioè di colui che poi si pentì perché sulle macerie di quel che lui aveva distrutto si accomodò per volere popolare Silvio Berlusconi? Oppure Tonino Di Pietro, quello che faceva sognare quando esibiva le manette ma che oggi, non più magistrato, prende le distanze dagli ex colleghi e con inaspettata saggezza si pronuncia a favore della separazione tra chi accusa e chi giudica?
Troppo facile andare a strappare le toghe e graffiare le facce antipatiche di qualche magistrato. La responsabilità è politica, prima di tutto. Sono stati gli antenati del Pd a scoprire come cacciare un ministro, in quel caso della loro stessa maggioranza, Filippo Mancuso, con la mozione di sfiducia individuale.
E sono poi stati tutti, o quasi, gli altri a chiedere le dimissioni degli avversari politici sfiorati dalle mani della magistratura. Sempre affermando che il motivo della mozione non era l’inchiesta giudiziaria ma i “motivi di opportunità”, che comunque da quell’inchiesta nascevano. E lasciamo perdere la faccia di bronzo di quelli del Movimento Cinque Stelle che hanno mandato in Parlamento l’ex sindaco Chiara Appendino, oggi condannata in via definitiva, anche se per una discutibile responsabilità oggettiva, senza battere ciglio. Immemori dei giorni in cui, capitanati da Luigi Di Maio, urlavano contro “il Parlamento degli inquisiti”. Riflettano bene Giorgia Meloni e gli altri esponenti di governo, prima di chiedere le dimissioni del ministro Daniela Santanché.
Cerchino di non dimenticare le pene inflitte anche da loro in Parlamento, quando erano all’opposizione, persino a una come Maria Elena Boschi per vicende neppure personali ma familiari poi terminate con archiviazioni. E ascoltino quello che, anche per ferite ancora portate sul suo corpo, pare oggi il più saggio. Il deputato europeo di Fratelli d’Italia Mario Mantovani, sbattuto in galera e tenuto a bagnomaria per sei anni prima della completa assoluzione. Lo ascoltino, e siano prudenti. Perché le carezze della magistratura sui politici sono proprio come le brutte malattie. Non le noti sugli altri e magari li tratti come appestati. Ma quando capitano a te o ai suoi cari, allora si, che bruciano.