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«Il Dubbio non ha capito nulla», scrive sui social Selvaggia Lucarelli, censurando la domanda che su queste colonne abbiamo formulato ieri, e cioè: perché i carabinieri hanno convocato la ristoratrice Giovanna Pedretti in caserma per interrogarla come persona informata sui fatti, poche ore prima che si suicidasse? «L’hanno convocata – spiega l’influencer - perché volevano risalire all’identità di colui che aveva scritto il commento sui gay e i disabili e aprire un procedimento per istigazione all’odio».
E menomale che ce lo spiega la Lucarelli, altrimenti non ci saremmo mai arrivati con il nostro intuito. I carabinieri, come peraltro raccontano anche tutti i giornali, agivano su delega della procura di Lodi, che ha aperto un fascicolo contro ignoti per l’ipotesi di reato prevista dall’articolo 604: «È punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6mila euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
Senonché il testo della legge non lascia dubbi all’interpretazione: tra le forme di discriminazione tassativamente indicate non rientrano quelle fondate sul «sesso, sul genere o sulle identità di genere». Chi pensasse di farle rientrare compirebbe quella che in termini giuridici si chiama analogia in malam partem, espressamente vietata in campo penale. La Corte Costituzionale lo ha ribadito almeno quattro volte negli ultimi cinque anni, riaffermando che il valore dell’interpretazione letterale della legge è insuperabile.
L’ipotesi di una discriminazione fondata sul «sesso, sul genere o sulle identità di genere» era invece prevista dalla proposta di legge Zan, che però è stata azzoppata nel suo iter parlamentare. Perché, al netto delle contrapposizioni ideologiche che ha scatenato, conteneva un equivoco che è insieme un rischio: quello di processare opinioni, discutibili quanto si vuole, frutto di arretratezza culturale, ma prive di offensività, cioè incapaci di ledere in concreto un bene giuridico protetto dalla norma. È il caso dei presunti avventori del ristorante di Lodi. I quali non molestano o discriminano i due presunti ragazzi gay seduti al tavolo a fianco, e non esprimono idee fondate sulla superiorità o sull’odio, ma a posteriori manifestano in un post il proprio “disagio” per essere stati seduti al fianco di una coppia di gay.
La domanda che ponevamo ieri nel nostro articolo si può, alla luce di queste considerazioni, tradurre nei termini che segue: il nostro è un Paese che processa penalmente l’imbecillità? Cioè, il nostro è un Paese più imbecille degli imbecilli che, per fortuna in stretta minoranza, lo abitano? La risposta è no. Gli imbecilli, come i presunti autori del post, non sono perseguibili. Non lo sono certamente per la legge vigente, e cioè per l’articolo 604 del codice penale. E forse neanche per la legge che sarebbe nei desideri di molti, e cioè la Legge Zan. Che pure farebbe salva, per espresso chiarimento nei lavori parlamentari, la libertà del pregiudizio.
È allora ripetiamo, a beneficio di Selvaggia Lucarelli, la domanda che abbiamo posto ieri: perché i carabinieri hanno convocato la ristoratrice come persona informata sui fatti, se i fatti non rientrano neanche per ipotesi in una fattispecie incriminatrice? Senza la quale, come ha tenuto a precisare la riforma Cartabia, l’iscrizione di una notizia di reato, e cioè il via alle indagini preliminari, non può avvenire?
A questo punto dobbiamo le nostre scuse ai carabinieri. Poiché la loro chiamata in causa era ovviamente una provocazione. È chiaro a chiunque che si sono attivati su delega di un magistrato, ma in assenza di qualunque presupposto di legge. L’unica giustificazione di quell’interrogatorio, a cui Giovanna Pedretti è stata sottoposta, era morale. Morale la finalità di individuare il presunto autore del post, morale l’attività investigativa diretta a verificare la veridicità del racconto della ristoratrice. La quale, come scrivono i grandi giornali senza porsi, anch’essi, alcun interrogativo sulla liceità della procedura, si è contraddetta, facendo sospettare gli inquirenti di avere inventato tutto di sana pianta.
Era certamente legittimo che un cuoco-influencer la smascherasse in un agone, quello dei social, dove chiunque entra assume il rischio di combattere e di soccombere. Ma era lecito ed era giusto che fosse lo Stato, nella sua potestà investigativa e autoritativa, a metterla di fronte alle contraddizioni della sua vita?
Questa domanda racconta il capovolgimento dell’universo civile, dove il consenso eclissa la competenza, gli investigatori fanno i moralisti e i cuochi fanno gli investigatori, gli influencer fanno i giornalisti, e i giornalisti? I giornalisti, ha ragione la Lucarelli, hanno smesso di farsi domande.