È la storia di un italiano, uno di noi: si chiama Beniamino Zuncheddu, è un bel giovanotto sardo, che nel '91 ha 27 anni, un fisico asciutto, una curata chioma nera, un bel sorriso che mostra tutti i suoi denti, e nessuna ruga. Ma soprattutto ha mille aspettative per il suo futuro: una moglie, dei figli, un importante allevamento di pecore. Tutto può sognare e programmare tranne che di venire accusato di un triplice omicidio, essere condannato all'ergastolo e farsi 33 anni di galera: innocente!

Nel momento del fattaccio, Beniamino è da un'amica, lontano dal luogo del delitto ma il tronfio protagonismo delle forze dell'ordine supportato da avvocati sciattoni e giudici superficiali lo condannano senza uno straccio di prova, valorizzando l'accusa di un teste e rinunciando alla verifica dell'alibi.

Poi accade che, grazie allo scrupoloso impegno di un giovane avvocato e al coscienzioso lavoro di un magistrato (può capitare di trovare “il giudice a Berlino”), venga riaperto il processo e riconosciuta la sua innocenza. È il 26 gennaio, alla vigilia del giorno della memoria!

«Mi hanno rubato tutto: prima ero giovane, ora sono vecchio», dice con parole semplici ma sacrosante. E sa bene, Beniamino, come sa chiunque abbia fatto la galera da innocente, che nessuno potrà restituirgli quella vita rubata: ora è canuto per quel che è rimasto della sua folta chioma, ha le guance scavate da sofferenti rughe, la bocca con pochi denti e lo sguardo appannato da una triste incredulità!

«È finito un incubo», dice ancora questo gentile “ragazzo” diventato vecchio senza vivere, perché in carcere non si vive, perché lì dentro il tempo, a dirlo è Enzo Tortora, «è un gocciolare interminabile, inutile, assurdo... Io uscirò cambiato. Stravolto. Come reduce da un cataclisma lunare...».

I sentimenti di Zuncheddu non sono diversi e spera soltanto di riprendersi quel che resta della sua vita a partire dai suoi 59 anni. Riceverà un risarcimento, per fortuna, anche se lui – anima buona – ha già cominciato a lavorare in un bar per sbarcare il lunario, a conferma di quanto sia un brav'uomo. Così lo presentano quei giornali e quelle tv che oggi si occupano di lui, ma che fra qualche giorno avranno altro di cui occuparsi. Sui giornali e sulle televisioni non ci sarà più spazio per il pastore sardo che si è fatto da innocente 33 anni di galera. Ma Beniamino non può essere dimenticato, non lo merita lui, non lo meritiamo noi italiani, perché è un simbolo per il nostro Paese, è la testimonianza di come un errore giudiziario può negarti di vivere, è un caso – grave – di malagiustizia che va ad aggiungersi a tanti altri, anche se meno gravi.

Beniamino Zuncheddu è il memento della sua vicenda, è una testimonianza di quello che in uno stato di diritto non può, non deve accadere. È un testimone attivo. Beniamino è per la malagiustizia quello che Liliana Segre è per la Shoah: ambedue testimoni del male assoluto che non può ripetersi. È un confronto esagerato, retorico, pomposo? Nell'uno e nell'altro caso si parla di privazione della libertà, di sequestro di persona, di violazione dei principali diritti umani, di indisponibilità della vita di ognuno da parte di chiunque, con la differenza che la senatrice Segre è stata vittima di quell'olocausto voluto dalla folle ideologia nazifascista, Zuncheddu da un errore dettato dalla proterva sciatteria di chi pretende di difendere e rappresentare la legalità.

E allora, Presidente Mattarella, lo faccia. Nomini Beniamino Zuncheddu senatore a vita: sarà la memoria per il nostro futuro perché come dice Primo Levi «chi dimentica il passato è condannato a riviverlo» e nessuno – tantomeno lei che rappresenta tutti gli italiani – immagino voglia che si ripetano vicende come quelle di Beniamino Zuncheddu, di Enzo Tortora.

E se questa proposta provoca un ironico sorriso, basti ricordare ancora lo scrittore torinese, superstite dell'olocausto: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare». E colpire chiunque!