Il dibattito suscitato dall’indagine sui vertici del Governo italiano mi ha fatto tornare alla mente una celebre frase di Anatole France: il diritto è la più efficace scuola della fantasia. Mai poeta ha interpretato la natura così liberamente come un giurista la realtà.

Abbiamo sentito voci autorevoli discettare di Corte penale internazionale, di estradizione, di notizie di reato, di atti più o meno dovuti da parte del Procuratore di Roma, della specificità delle indagini per i reati ministeriali, un fantasioso guazzabuglio in salsa giuridica che sembra prescindere dai dati normativi. Nel tentativo, forse vano, di fare chiarezza, bisogna ammettere che la ridda delle diverse interpretazioni si giustifica solo per il fatto di essere sostenuta da opposte valutazioni politiche. Conviene, quindi, tenere separati i piani del discorso: prima affrontare la questione giuridica e poi soffermarsi su quella politica.

In materia di estradizione passiva, le decisioni dell’autorità giudiziaria sono sempre sottoposte alla valutazione finale che spetta al ministro della Giustizia, il quale deve tener conto non solo dei rapporti con lo Stato richiedente, della sovranità e della sicurezza nazionale, ma anche, se non soprattutto, di «altri interessi essenziali dello Stato» (art. 697 comma 1-bis c.p.p.), formula dotata di una voluta indeterminatezza tale da giustificare la completa rivalutazione anche dei profili già affrontati e risolti dai giudici.

L’ultima parola spetta sempre al ministro, decidere se concedere o meno l’estradizione è un atto politico, l’unica eccezione a questa tradizionale impostazione è prevista per la cooperazione rafforzata interna all’Unione europea (vedi Mae), ambito in cui i rapporti vengono autonomamente gestiti dalle autorità giudiziarie procedenti. Nei rapporti internazionali extra Ue, tanto regolati da trattati bilaterali, ad esempio quello Italia-Usa sul quale torneremo affrontando gli aspetti politici, quanto multilaterali, come lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale, concedere o meno l’estradizione è una scelta politica discrezionale del ministro della Giustizia.

Posta questa premessa, così decisiva da essere del tutto trascurata nell’attuale dibattito vagamente surreale, va ricordato che la vicenda specifica riguarda una richiesta di consegna proveniente dalla Corte penale internazionale e regolata non solo dallo Statuto di Roma e dalla l. 232/1999 di ratifica, ma anche dalla l. 237/2012 per l’adeguamento alle disposizioni dello Statuto. L’art. 2 l. 237/2021 ribadisce il principio generale per cui anche i rapporti con la Corte penale internazionale e le relative decisioni «sono curati in via esclusiva dal ministro della Giustizia». È vero che l’Italia si è obbligata a cooperare, ma pur sempre nell’ambito di un accordo internazionale che fa salve le regole nazionali (art. 89 comma 1 l. 232/1999), fra cui vi è la valutazione politica sugli interessi essenziali dello Stato.

Nel caso Almasri, la polizia italiana ha operato, su richiesta dell’Interpol, un arresto palesemente illegittimo, come del resto stabilito dalla Corte d’appello di Roma, spettando solo al ministro il potere di dare avvio alla procedura di consegna e non certo alla Digos. Anche su questo punto ho letto diverse ricostruzioni, ma in uno stato di diritto gli art. 11 e 14 l. 237/2012 non ammettono deroghe al procedimento che prende avvio con la trasmissione della richiesta dal ministro al Procuratore generale di Roma.

Dunque, Almasri, a prescindere dalla gravità delle accuse mosse nei suoi confronti e magari nel rispetto della presunzione d’innocenza, doveva essere scarcerato e il procedimento di cooperazione internazionale avrebbe potuto riprendere il suo corso legittimo solo su iniziativa del ministro della Giustizia. E qui c’è il cuore della questione. Se il decisore politico stabilisce che non si debba dar corso alla richiesta di consegna, tale determinazione rientra nella discrezionalità riconosciutagli dalla legge. Così come rientra nella discrezionalità del Governo espellere un soggetto “indesiderato” che, al tempo stesso, non si vuole consegnare alla Corte penale internazionale.

Si potrà discutere sulle modalità del diniego, un imbarazzato silenzio-dissenso in luogo di una più chiara presa di posizione, ma la scelta, sul piano giuridico, rimane legittima. E veniamo alla denuncia presentata dall’avv. Li Gotti. Ho seri dubbi che quanto depositato alla Procura di Roma rappresenti una notizia di reato. Non mi sembra ipotizzabile, nemmeno sul piano astratto, che una legittima scelta politica discrezionale possa integrare una fattispecie di reato, addirittura il favoreggiamento personale e il peculato.

Chi esercita una facoltà prevista dalla legge, come quella di non dar corso a una richiesta di estradizione, non può certamente commettere un reato, mi sembra un principio elementare del diritto penale, senza nemmeno scomodare la scriminante dell’art. 51 c.p. Del resto, neppure il “compianto” abuso d’ufficio incriminava scelte discrezionali dei pubblici ufficiali. Se ciò è vero, e ne sono ragionevolmente convinto, il Procuratore di Roma avrebbe dovuto iscrivere la denuncia dell’avv. Li Gotti a modello 45, ossia fra gli atti non costituenti notizia di reato. Questo era l’atto dovuto da parte del Procuratore Lo Voi.

Non regge la ricostruzione per cui di fronte a qualunque denuncia nominativa, il Procuratore della Repubblica sarebbe comunque tenuto all’iscrizione nel registro delle notizie di reato. A questa conclusione osta il tenore letterale dell’art. 335 c.p.p. per cui va iscritta ogni notizia rappresentante un fatto determinato, non inverosimile e, soprattutto, riconducibile a una fattispecie di reato. Come detto, un atto politico discrezionale, previsto dalla legge, non può nemmeno astrattamente essere riconducibile a una fattispecie di reato.

Non serve evocare la “circolare Pignatone” o il novellato comma 1-bis dell’art. 335 c.p.p., per cui il nome dell’indagato va iscritto quando sorgano indizi a suo carico. Qui il problema è a monte, si tratta della notizia di un fatto non costituente reato. Per inciso, non andava nemmeno iscritto il denunciante per calunnia, essendo esclusa dall’ordinamento penale la calunnia giuridica ossia quella fondata su un errore di diritto, ma riferibile a circostanze di fatto vere. Ai sensi dell’art. 6 comma 2 L. cost. n. 1/1989, il Procuratore, nello specifico quello di Roma, omessa ogni indagine, deve trasmettere al Tribunale dei Ministri (di Roma) non solo gli atti, ma anche le sue richieste. Questo è un passaggio fondamentale sul quale in pochi si sono soffermati.

Pur non potendo indagare, il Procuratore di Roma è chiamato a formulare una richiesta riferita all’alternativa fra l’archiviazione e l’esercizio dell’azione penale, richiesta che presuppone un apprezzamento di merito sulla fondatezza della denuncia ricevuta, ponendosi così agli antipodi dell’atto dovuto.

Mi sembra evidente che la scelta del Procuratore di Roma di iscrivere una pseudo notizia di reato e di valutarla nel merito, esprimendo le sue richieste al riguardo (purtroppo allo stato non note), sia un comportamento voluto, ben diverso dal cosiddetto atto dovuto, e che appare seriamente eccepibile dal punto di vista giuridico, secondo quanto detto in precedenza. Così ricostruita la vicenda nelle sue coordinate giuridiche, rimane il piano politico.

Una prima domanda sorge spontanea, per quale ragione l’analoga decisione del ministro Nordio di non dare corso alla richiesta di estradizione avanzata dagli Usa nei confronti dell’ingegnere iraniano arrestato in Italia non ha originato esposti e procedimenti? A ben vedere si tratta di un caso del tutto sovrapponibile: un trattato internazionale bilaterale imponeva la cooperazione, ma il ministro ha opposto un diniego politico nell’ambito dell’evidente scambio di prigionieri con l’Iran che ha consentito la liberazione di Cecilia Sala.

Non si può, inoltre, non cogliere la coincidenza temporale fra l’apertura di un’indagine che, per la prima volta nella storia della Repubblica, coinvolge tutti i vertici del Governo, e l’approvazione in prima lettura della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere osteggiata dalla magistratura al punto da proclamare una giornata di sciopero.

Senza cadere nel vizio italico della dietrologia, vi sono troppe coincidenze sospette, ma soprattutto la vicenda Almasri non è diversa da tante altre in cui si è fatta prevalere la realpolitik senza l’intervenuto della magistratura. Un caso chiaramente e schiettamente politico trasformato in giudiziario con un atto voluto, più che dovuto. Non spetta alla magistratura chiedere conto al Governo della scelta di liberare un individuo accusato di crimini gravissimi, la responsabilità è tutta politica e le sedi naturali in cui rispondere non sono i Tribunali, ma il Parlamento e il dibattito pubblico.