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La guerra in Ucraina non tira più, nella gerarchia delle notizie dei grandi giornali italiani è scivolata in basso, dopo lo spot dell’Esselunga e l’ulcera di Fedez. L’assuefazione mediatica è stata rapida: passato il picco emozionale delle prime settimane, passata la paura della terza guerra mondiale, di un’apocalisse nucleare in Europa e la prospettiva di un improvviso e spettacolare tirannicidio a Mosca sulla falsariga di quanto accaduto a Saddam Hussein, l’interesse è sfumato in fretta. Come è indubbiamente sfumata l’empatia globale per gli ucraini che vivono il conflitto in casa da oltre cinquecento giorni, con il mondo intero che sembra ormai abituato a considerarli per natura un popolo destinato a vivere sotto occupazione.
È una legge inesorabile del giornalismo l’assuefazione alle guerre, è stato così per l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria e adesso tocca all’Ucraina di quel testardo rompiballe di Zelensky a cui gli alleati americani stanno peraltro iniziando a chiudere i rubinetti. Un conto però è la stanchezza fisiologica dei media di fronte a un conflitto che si fa endemico, un altro è la rimozione collettiva a cui stiamo assistendo. Di sicuro lo stallo militare e il disinteresse crescente degli organi di informazione fanno il gioco di Vladimir Putin e della sua Russia.
I tempi in cui la comunità internazionale inorridiva per i bombardamenti delle città ucraine e per le torture e le fosse comuni di Bucha d’altra parte sembrano davvero molto lontani. Così, resta la sgradevole sensazione che, nella nostra opinione pubblica e nel nostro derelitto panorama intellettuale, la guerra in Ucraina fosse solamente il pretesto, l’espediente per litigare, posizionarsi e dividersi tra falangi contrapposte in un dibattito caricaturale e salottiero tra “amici del criminale Putin” e “servi dell’imperialismo Nato”.