Nei giorni successivi alla morte di Alexei Navalny avvenuta in circostanze misteriose in una colonia penale della Siberia, i soliti noti si sono prodigati nel paragonare il caso del dissidente russo a quello di Julian Assange, accusando l’opinione pubblica occidentale di «ipocrisia», perché in fondo l’oppositore di Vladimir Putin e il fondatore di Wikileaks sarebbero due facce della stessa medaglia, entrambi vittime di un potere che non tollera e che punisce il dissenso, a Mosca come a Washington.

Lo ha fatto il leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte, lo ha fatto Michele Santoro, oggi frontman di Pace terra e dignità e, naturalmente, lo ha fatto in bello stile l’intellettuale d’area Marco Travaglio condannando il «doppiopesismo» e l’idea che alla Casa Bianca ci siano i buoni, mentre al Cremlino alberghino i cattivi.

Onestamente non sappiamo quanta personale cattiveria muova le scelte di Joe Biden o quanta animi quelle di Vladimir Putin e in fondo neanche ci interessa. Di sicuro quando i governi entrano in guerra, quando approvano leggi che non ci piacciono, in Occidente si può ancora manifestare, nelle piazze, nei media, sul web. E si possono organizzare, evidentemente con successo, campagne internazionali contro l’ingiusta detenzione di un giornalista che ha rivelato segreti (e crimini) di Stato.

In Russia, al contrario, quando alzi la voce per contestare qualsiasi scelta del regime, finisci dritto in galera. Ne sanno qualcosa le migliaia di pacifisti arrestati dopo l’invasione militare dell’Ucraina nel febbraio del 2022. È la differenza tra la democrazia e la dittatura, tra lo Stato di diritto e quello di arbitrio, tanto che Alexei Navalny è morto, mentre Julian Assange, per fortuna, è tornato a essere un uomo libero.