Ci sono molte chiacchiere e tanti distintivi immeritatamente dispensati nella storia della lotta alla mafia in Italia. Qualche decennio or sono, quando i cronisti giudiziari non si preoccupavano di accodarsi a qualche toga e di enfatizzarne le gesta. Qualche decennio or sono, quando ancora c’erano obiezioni e riluttanze ad ammettere che fosse necessario il delitto di associazione mafiosa, perché i clan, in fondo, erano semplici associazioni di malfattori.

In quel mondo avvolto nelle nebbie di una collusione della politica di alto rango con le mafie profonda, radicata, ricercata dai capicorrente e dispensata dai capibastone (di cui, per fortuna, esiste oggi solo un vago ricordo). In quel crepuscolo di connivenze, l’azione di un silente, caparbio, ostinato, colto giudice istruttore di Reggio Calabria segnava un punto di svolta decisivo nel modo di affrontare la criminalità dei mafiosi. Era il 1978 quando Agostino Cordova, da lungimirante investigatore, colse l’importanza delle indagini bancarie, l’attenzione sugli appalti pubblici e privati, andò a rovistare negli archivi delle banche per scoprire che il più importante boss della ’ndrangheta calabrese – con un appunto a mano lasciato in un fascicolo, custodito nel cassetto del direttore – era accreditato come affidabile economicamente, benché nullatenente e, bontà sua, di dubbia fama.

L’ordinanza di rinvio a giudizio, atto conclusivo delle sue indagini, è citata in tutta la letteratura scientifica che si occupa di reati di mafia, e chi la ignora, soprattutto se calabrese, rischia di apparire come un ciarlatano di dubbia qualità. Il processo era intestato a “Paolo De Stefano + 59”, ossia per intendersi al boss ucciso nel 1985 e la cui morte scatenò una guerra con circa 1.000 morti spentasi solo nel 1991. Il reato contestato era l’associazione semplice, ovviamente dovendo arrivare anni dopo il 416- bis (1982).

Agostino Cordova è morto pochi giorni or sono e qualcuno ha avuto già cura di ricordarne l’attività come procuratore della Repubblica di Palmi e poi a Napoli. Soprattutto la prima esperienza resta segnata dall’indagine sulla massoneria e da quella sulla centrale Enel. Uno sforzo gigantesco con pochissime forze a disposizione ( tre sostituti in tutto) e con un unico, vero limite: l’obbligatorietà dell’azione penale come imperativo morale, statuto ideologico, orizzonte irrinunciabile.

L’onnivoro procuratore, caparbio e lungimirante, non riusciva a capacitarsi del fatto che lo Stato non gli mettesse a disposizione tutte le risorse necessarie per approfondire, scoperchiare, investigare ovunque e ciascuno. Più acquisiva documenti e dichiarazioni più gli sembrava irrinunciabile dover investigare l’acquitrino stagnante in cui una certa massoneria operava da cinghia di trasmissione tra le più potenti cosche della ’ ndrangheta ( non tutte, come si vocifera a casaccio) e gli apparati pubblici.

Il rischio della dispersione, della confusione, dell’ingovernabilità era in agguato e, probabilmente, chi un domani volesse davvero occuparsi della questione in modo serio – ossia al netto di pamphlet di scarso conio – non dovrebbe rinunciare ad approfondire non gli esiti ( invero pochi) di quell’indagine, ma il suo percorso, l’ideologia giudiziaria che l’ha sospinta e giustificata, perché attraverso di essa traspare un modello di giurisdizione di cui si sono perse le tracce in Italia.

Il modello investigativo di Agostino Cordova non poteva reggere innanzi al peso di fenomeni ampi, dilatati, sfilacciati, chiaroscurali come quelli relativi alle infiltrazioni malavitose nella vita pubblica del paese. La vicenda della nomina a procuratore nazionale Antimafia che, a un certo punto, lo vide contrapposto a Giovanni Falcone non deve indurre in confusione. In fondo il profetico ex giudice istruttore palermitano aveva, con una sana percezione della realtà e raro intuito politico, compreso che il principio di obbligatorietà dell’azione penale poteva “affondare” la nave appena allestita dallo Stato per combattere la mafia (1991), e proprio a causa della difficoltà di selezionare le condotte di collusione e partecipazione da quelle penalmente irrilevanti.

La vastità del problema, la confluenza di politica, imprenditoria, istituzioni anche giudiziarie, in un unico alambicco di potere che distillava affari, carriere e veleni erano il vero limite per il successo dell’azione di accertamento dei fatti di mafia e malaffare con il codice accusatorio entrato in vigore nel 1989. Occorreva, ora, selezionare, passare al setaccio, distinguere, approfondire per evitare che il sospetto prendesse il posto delle prove, che il vago divenisse stadera della responsabilità pubblica e del vilipendio mediatico. Al di là di stantie polemiche e starnazzanti prese di posizione, è solo su quel terreno che si doveva trovare un punto di equilibrio nelle regole sull’azione penale.

L’estremismo ideologico ha impedito finanche un dibattito sul punto, consegnando alle Procure della Repubblica il ruolo improprio e pericoloso di arbitri dell’azione penale in ogni settore investigativo di rilievo, con l’esercizio di un’obbligatorietà, come dire, “flessibile” a seconda degli obiettivi da proteggere o da distruggere; mite con gli amici o i protettori da rassicurare con generose archiviazioni e inflessibile con i nemici, da colpire con inchieste inconsistenti, ma mediaticamente esplosive.

La morte di Agostino Cordova chiude un cerchio in questo senso e consegna, a chi vorrà occuparsene, tre lezioni fondamentali. In primo luogo, solo il coraggio, l’altissima qualità professionale e culturale, uno spessore morale integro consentono passi in avanti nelle indagini sul potere che non siano l’ennesima, stucchevole ripetizione delle precedenti o, peggio, si concludano in sordi tonfi nelle aule.

Secondariamente, una vocazione investigativa insaziabile, caparbia, generosa, quasi visionaria deve misurarsi con le risorse a disposizione e con la loro qualità, altrimenti è facilmente imbrigliabile e finisce per spiaggiare. Infine, la negazione di ogni retorica, di ogni declamazione, di ogni enfasi pubblicitaria. Il buon Cordova amava far sorridere i suoi giovani colleghi lamentandosi del fatto che il mondo dell’antimafia fosse pieno di infaticabili elettricisti e, alla inevitabile curiosità dell’interlocutore, rispondeva che stavano tutti ogni mattina a misurare “il calo di tensione” nella lotta ai clan, anzichè a lavorare.