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Il caso della piccola Indi Gregory, la bambina britannica di appena 8 mesi affetta, fin dalla nascita, da una terribile e incurabile malattia ha riacceso il dibattito attorno ad una delle questioni etiche più delicate, ossia il fine vita. Il dilemma, in questa drammatica vicenda, ha interessato, da un lato, il diritto alla vita invocato, per la loro figlia, dai genitori, che si sono opposti a qualsiasi forma di eutanasia attuata tramite il distacco dalle macchine; e, dall’altro, la posizione dell’ospedale britannico (e più in generale della comunità scientifica) che, a fronte delle irreversibili condizioni della piccola, non ha ritenuto più nell’interesse del minore il mantenimento in vita, in quanto il distacco dalle macchine è “finalizzato a risparmiare dolori e sofferenze inutili al malato”.
Si è arrivati così al coinvolgimento della giustizia britannica, la quale si è pronunciata – in più gradi di giudizio, a seguito dei ricorsi della famiglia – autorizzando i medici a interrompere il supporto vitale, affermando che le prove mediche erano “unanimi e chiare” e le cure ormai inutili e fonti solo di sofferenze. “Nulla suggerisce che la prognosi di Indi Gregory sarebbe modificata in modo positivo dal trattamento dell’ospedale italiano", ha dichiarato il giudice Peel.
Tralasciando i lodevoli tentativi del governo di Roma di correre in extremis in aiuto della piccola e dei suoi familiari, concedendo la cittadinanza italiana alla bambina, e assunta per buona la legittimità formale del provvedimento della Corte inglese, occorre interrogarsi piuttosto sulla sua legalità sostanziale. Sebbene costituisca un postulato cardine quello per cui l’etica non debba mai entrare all’interno di un’aula di giustizia, ciò non significa, a priori, che talvolta una decisione giusta sia anche quella più eticamente accettabile.
Una delle possibili risposte, proveniente dal formante giudiziale, e precisamente proprio da quello inglese, è contenuta in un passo della motivazione della sentenza con cui la Corte del Regno Unito, già nel 2017, nel noto caso ( assai simile a quello della piccola Indi) che aveva coinvolto il piccolo Charlie, aveva ritenuto che la sospensione dei trattamenti vitali avrebbe realizzato il best interest del bambino.
Nel confermare, dunque, l’autorizzazione all’interruzione dei trattamenti, la High Court evidenzia come la necessità di una pronuncia giurisdizionale in casi nei quali, come in questo, vi sia un contrasto tra i sanitari e i genitori del minore, risieda proprio nella realizzazione del miglior interesse del bambino: “In circumstances where there is a dispute between parents and the hospital, it was essential that Charlie was himself independently represented and a guardian was therefore appointed to represent Charlie so that there was someone who could independently report to the court as to what was in his best interests”.
Parallelamente, un’altra possibile risposta al quesito, questa volta proveniente dal formante medico- scientifico, è quella fornita dal dottor Alberto Giannini, direttore dei reparti Anestesia e Rianimazione pediatrica all’ospedale dei Bambini di Brescia e responsabile del Comitato etico della Siaarti (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva). In particolare, due aspetti sembrano dirimenti.
Il primo: la coscienza del limite della medicina, non onnipotente ma - al contrario - limitata: “C’è un limite di ragionevolezza ( non possiamo pensare di avere una risposta sempre e per qualsiasi bisogno), c’è un limite di efficacia clinica (anche se quotidianamente cerchiamo di alzare “l’asticella” con la ricerca) e poi c’è un limite di senso: dobbiamo scandagliare ogni azione nell’ambito della salute e della cura per valutarne il senso e l’accettabilità anche sul piano etico, dimensione fondamentale dell’agire umano. Non sempre, infatti, ciò che è tecnicamente possibile fare è anche eticamente accettabile. Nella realtà, invece, sempre più spesso le aspettative nei riguardi della medicina sono irragionevoli e non consideriamo questi tre aspetti che vanno a decodificare e a definire la dimensione del limite”.
Il secondo aspetto è la proporzionalità delle cure, che si definisce attraverso il bilancio tra l’appropriatezza di una cura e la gravosità e gli oneri che questa impone al paziente e alla sua famiglia. In tal senso, Giannini precisa che “sospendere un trattamento di supporto vitale non significa assolutamente, però, fare eutanasia, non significa sospendere le cure, non significa smettere di avere cura della persona, ma significa rimodulare i trattamenti in chiave palliativa, partendo dall’oggettiva consapevolezza che la medicina, in alcuni casi non può guarire ma può evitare o limitare tutto ciò che può generare sofferenza”.
Queste, peraltro, le intenzioni che hanno animato la battaglia legale ingaggiata dalla famiglia della piccola Indi nonché dell’ospedale Bambin Gesù di Roma. Sottolinea, tuttavia, il dottor Giannini che nessuno, neanche un familiare, può richiedere un trattamento non considerato “proporzionato”. Un trattamento non proporzionato non deve essere messo in atto e, qualora si rivelasse tale in un percorso di cura, va sospeso.
Tale perentoria posizione trova - da ultimo - una totale convergenza sul fronte normativo interno con la legge 219 del 2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, la quale non consente in alcun modo al personale sanitario di attuare “un’irragionevole ostinazione” nei confronti di determinati pazienti con patologie irreversibili. Questa, dunque, nel complesso, una parziale ricostruzione etico-giuridica che può aiutare a inquadrare questa triste ma assai complicata-vicenda umana.