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«Nessuno degli imputati aveva un interesse personale nella vicenda. Se hanno agito in quel modo, l'unica spiegazione è che hanno obbedito a quegli ordini. E chi ha dato quegli ordini l'ha fatta franca». Sono passati pochi minuti dalla lettura della sentenza che condanna a cinque anni di reclusione l’ex capo della Squadra mobile di Roma e attuale questore di Palermo, Renato Cortese, e l’ex dirigente dell’Ufficio immigrazione, Maurizio Improta, per il sequestro di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Aula, e Astolfo Di Amato, avvocato della donna, commenta così al telefono l'esito del processo di primo grado. Per il legale di Alma, a cui «non fa comunque mai piacere quando qualcuno viene condannato», quella del Tribunale di Perugia è una sentenza monca, che lascia aperti troppi interrogativi: Chi, nel maggio del 2013 diede l'ordine di prelevare la figlia e la moglie di un dissidente kazako, in possesso di un regolare passaporto diplomatico, e consegnarle arbitrariamente alle autorità di Astana? E perché gli imputati hanno negato tutti i reati loro addebitati ma senza parlare della catena di comando? Perché, secondo la sentenza, gli agenti della Mobile ingannarono di loro iniziativa - falsificando persino documenti - i colleghi dell'Ufficio immigrazione, la Procura di Roma (guidata da Giuseppe Pignatone) e quella per i Minorenni che poi firmarono i decreti di espulsione. Una ricostruzione, che per l'avvocato Di Amato regge poco. L'unica certezza in questa storia sono le condanne. Pesantissime. Molto più severe di quelle richieste dalla Procura, che per Cortese e Improta aveva chiesto, rispettivamente, due anni e quattro mesi e due anni e due mesi di reclusione: meno della metà della pena poi comminata. Cinque anni anche per i funzionari della Squadra mobile Luca Armeni e Francesco Stampacchia. Per tutti decisa anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Stefano Leoni e Vincenzo Tramma, agenti in servizio all’Ufficio immigrazione sono stati invece condannati rispettivamente a tre anni e sei mesi e a quattro anni. Due anni e sei mesi, infine, per la giudice di pace Stefania Lavore, che all'epoca convalidò l'espulsione di Shalabayeva: è l'unica condanna in cui non viene contestato il sequestro di persona. «C'era una donna, moglie di un dissidente e con una bambina piccola, che supplicava di essere ascoltata ma tutti facevano finta di non sentire. Sicuramente questo aspetto avrà avuto un peso determinante su un giudizio così severo», spiega l'avvocato Di Amato. Ma per capire la sentenza di ieri bisogna fare un salto indietro di sette anni e ripercorrere un caso internazionale che fece rischiare la poltrona ad Angelino Alfano, allora ministro dell'Interno e costò le dimissioni a Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto al Viminale. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio del 2013, la polizia fa irruzione in un appartamento di Casal Palocco a Roma. Cercano Mukhtar Ablyazov, dissidente kazako ricercato dalle autorità di Astana. Ma in quell'abitazione vive solo la sua famiglia. «Fui svegliata da un forte rumore. C’era gente che bussava alle finestre e alle porte. Mia sorella, mio cognato e io ci precipitammo verso la porta d’ingresso», racconterà la stessa Alma Shalabayeva nel diario in cui ricostruisce ora per ora quei momenti concitati. «Quando aprii la porta tentai di chiedere in inglese chi fossero. Mi diedero una spinta e circa 30-35 persone entrarono in casa. Un’altra ventina rimase fuori. Erano vestiti di nero e armati», ricorda la moglie del dissidente. «“Puttana russa”, mi disse uno di loro. Un italiano con una grossa catena al collo e l’aspetto da mafioso cominciò a urlare indicando la pistola». Shalabayeva è terrorizzata e per ore resiste alle richieste di quegli uomini, nega di essere kazaka e dice di non conoscere Ablyazov. Mostra solo un regolare passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana, ma per gli agenti che hanno fanno irruzione nel suo appartamento è falso. È la scusa per trasferirla al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria senza poter comunicare all'esterno. Da quel momento inizia un calvario, fatto di tentativi disperati di chiedere asilo politico e bloccare la procedura d'espulsione già avviate dalle autorità italiane che non verranno ascoltati. Alma e Alua verranno rispedite in Kazakistan, dietro le insistenti richieste delle autorità di Astana che mette a disposizione l'aereo privato per il rimpatrio. Sette anni dopo, per il Tribunale di Perugia, si trattò di un sequestro di persona.