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C’è un sorprendente incrocio tra un fatto tragico, che ha colpito milioni di italiani, e una meno nota, ma pure terribile, vicenda di malagiustizia. Nadia Toffa, inviata delle Iene scomparsa due giorni fa, si era interessata alle assurdità inflitte alla famiglia Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, assolti da ogni accusa di mafia eppure spogliati di tutti i loro beni dallo Stato.
IL CASO Proprio nel giorno in cui ci ha lasciati la coraggiosa giornalista, la Procura del capoluogo siciliano ha chiesto al gip di coprire con il velo definitivo dell’archiviazione le indagini sulle presunte malversazioni contestate, dai Cavallotti, a uno degli amministratori giudiziari che hanno gestito, e indebitato, le loro aziende, Andrea Modica de Mohac.
Il professionista siciliano era stato intervistato proprio da un altro inviato delle Iene, Matteo Viviani. Il quale nel dicembre del 2017 gli chiese di rispondere alle accuse di abuso d’ufficio e false fatturazioni mossegli dai Cavallotti, e ottenne la seguente risposta: «Era tutto autorizzato dal giudice...».
È un’informazione decisiva. E indispensabile per comprendere la sconcerto suscitato, dalla richiesta d’archiviazione, in Pietro Cavallotti, che nella seconda generazione della famiglia di imprenditori è divenuto il regista delle tenaci strategie processuali studiate per avere giustizia.
SENZA SPERANZE Dice Pietro: «Il nostro timore è che, con la fine delle indagini sull’amministratore Modica de Mohac, cada ogni speranza di verificare se vi siano state, appunto, anche responsabilità da parte del Tribunale. In particolare, se ad autorizzare condotte manageriali devastanti, e additate come sospette dalla Guardia di Finanza, sia effettivamente stata la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta negli anni in questione, dal 2006 al 2012, anche da Silvana Saguto».
Si tratta della magistrata sotto processo a Caltanissetta con alcune decine di capi d’impoutazione relativi proprio agli incarichi affidati a diversi professionisti per gestire le aziende sequestrate dal suo ufficio.
Colpisce, in effetti, il contrasto fra la rassegnata resa dei pm palermitani e la durezza delle accuse ipotizzate nelle loro relazioni investigative dagli uomini della Dia di Palermo, guidati all’epoca dal colonnello Riccardo Scuto. Ipotesi che confermavano in gran parte i sospetti formulati innanzitutto nell’esposto presentato alla Procura, nel 2014, da Salvatore Vito Cavallotti, zio di Pietro.
LA DENUNCIA DELLA FAMIGLIA Con quella denuncia, la famiglia di imprenditori segnalava, per esempio, fatturazioni acquisite dalla Comest, una delle aziende di famiglia amministrate giudiziariamente da Modica de Mohac, e provenienti da ditte, come la “D’Arrigo” di Borgetto, di cui era amministratore lo stesso professionista.
Così come venivano denunciati i rapporti instaurati con la “Mirto inerti”: rapporti in cui, negli accertamenti successivamente condotti, gli investigatori della Direzione antimafia riscontrarono anomalie che facevano «trasparire con ogni probabilità un artifizio, mirante a sanare, in epoca successiva, le incongruenze della contabilità interna».
L'INCHIESTA GIORNALISTICA Nella stessa relazione veniva citato anche un articolo di un combattivo giornale on line, I siciliani giovani, e in proposito, gli investigatori guidati dal colonnello Scuto scrivevano: «Appare non completamente priva di fondamento la tesi giornalistica che paventava successivi aggiustamenti contabili realizzati a seguito di una denuncia presentata dai fratelli Cavallotti, che lamentavano la svendita a prezzi irrisori dei mezzi delle loro società».
È in virtù di tali elementi che gli investigatori sollecitano la Procura di Palermo ad acquisire i carteggi tra l’amministratore giudiziario e il Tribunale. Richiesta avanzata dai pm, ma mai evasa. Un silenzio, sui possibili addebiti riconducibili alla stessa sezione Misure di prevenzione, che secondo Pietro Cavallotti «è perfettamente intonato con i successivi provvedimenti di confisca delle nostre aziende.
Da una parte la negazione dei carteggi tra de Mohac e i giudici impedisce di accertare eventuali illeciti dello stesso Tribunale che, per la loro maggiore gravità, spazzerebbero via anche l’ostacolo della prescrizione, in modo da consentire a noi di agire contro amministratori e magistrati per essere risarciti. Dall’altra», nota Cavallotti, «la confisca, che continuiamo a chiedere, senza esito, di revocare, ci impedisce di acquisire documenti che da soli potrebbero consentirci verifiche contabili più penetranti, ma la stessa confisca ci priva, soprattutto, della legittimazione giuridica ad agire civilmente» .
Passano gli anni, resta l’ingiustizia subita dagli imprenditori di Belmonte, e resta anche l’impossibilità di rivalersi almeno sul piano civile nei confronti di chi ha lasciato che una delle più grandi imprese nazionali nella distribuzione del gas si riducesse in polvere. Una beffa che pare prolungarsi senza fine.