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Al Corriere della Sera è capitato di ospitare fra la prima e la diciannovesima pagina, come in un’aula di tribunale o in un ufficio di Procura, un processo a Francesco Cossiga nel decimo anniversario della sua morte. Ha cominciato a Ferragosto il magistrato in pensione Gian Carlo Caselli a pagina 19 contestando all’ex capo dello Stato di avere intrattenuto rapporti epistolari con i brigatisti rossi, compresi alcuni autori materiali del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, gratificandoli di quel “riconoscimento” pur negato durante la prigionia del presidente della Dc dallo stesso Cossiga e dal governo di cui faceva parte, anche a costo di procurare la morte dell’ostaggio. Di cui i terroristi volevano lo scambio con alcuni detenuti, negoziato come tra controparti in guerra. A Caselli - implacabile nella sua funzione di pubblico accusatore anche ora che i suoi 81 anni ne fanno un ex - ha risposto in difesa del padre Anna Maria Cossiga, che quell’epistolario ha consegnato alla Camera con tutto l’archivio dell’ex presidente della Repubblica, o di quella parte ritenuta forse utile alla comprensione delle vicende politiche di cui lui fu protagonista nelle varie funzioni svolte durante la sua lunga carriera pubblica. «Li aveva combattuti da ministro degli Interni. Passata la stagione del sangue, dopo che lo Stato aveva vinto, voleva comprenderne le ragioni e avviare la pacificazione del Paese», ha detto la figlia di Cossiga spiegando gli incontri e le lettere scambiate fra il padre, il fondatore delle brigate rosse Renato Curcio e persino Prospero Gallinari. Che nel 1978 non era stato solo il carceriere ma anche l’esecutore materiale della sentenza di morte contro Moro emessa dal fantomatico “tribunale del popolo”, sparandogli per primo al cuore la mattina del 9 maggio nel bagagliaio dell’auto che sarebbe stata poi lasciata in sosta fra le sedi della Dc e del Pci. D’altronde, di quella curiosità di conoscere le “ragioni” della lotta armata e di chiuderne il capitolo con atti di “pacificazione” ,Cossiga si era pubblicamente assunto la responsabilità già quando era al Quirinale, prima ancora di incontrare e scrivere da ex presidente della Repubblica ai protagonisti di quella disgraziata stagione. Egli aveva tentato, per esempio, di concedere la grazia a Renato Curcio, che espiava da 17 anni la sua condanna per terrorismo senza avere tuttavia ammazzato personalmente nessuno. A impedire di fatto la grazia, avvertendone tutta la impopolarità, era stato l’allora ministro socialista di Grazia, appunto, e Giustizia Claudio Martelli con disquisizioni di natura politica e giuridica finite davanti alla Corte Costituzionale per iniziativa dello stesso Martelli. Nella sua intervista al quirinalista del Corriere della Sera, Anna Maria Cossiga ha tenuto, fra l’altro, anche a ricordare il tormento procurato al padre sino alla morte dalla vicenda del sequestro e dell’assassinio di Moro. Cui Cossiga doveva la sua crescita politica, essendo stato da lui promosso nel suo ultimo governo da ministro della riforma burocratica a ministro dell’Interno. Si sentiva responsabile di quella morte. Capitava che di notte si svegliasse dicendo: «l’ho ucciso io», ha raccontato la figlia. Di questo tormento sono stato personalmente testimone nel suo ufficio al Quirinale assistendo allo scoppio di un pianto ininterrotto una volta che parlammo di Moro, del suo sequestro, della lunga e penosa prigionia e di quel gesto «inutilmente riparatorio» -mi disse- di dimissioni da ministro dell’Interno annunciate a conclusione della tragedia. E che non erano valse neppure a placare la famiglia di Moro, convinta delle responsabilità della Dc, del governo di allora appoggiato esternamente dal Pci e di Cossiga personalmente per l’assunzione della cosiddetta “linea della fermezza” dopo il sequestro e poi anche per la sua gestione. I rimorsi di Cossiga col tempo aumentarono, anziché ridursi. Ciò accadde, in particolare, quando si accorse da ormai ex presidente della Repubblica, durante i lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo presieduta dal senatore post-comunista Giovanni Pellegrino, di essersi avvalso durante il sequestro Moro di alcuni consulenti fra i quali uno rivelatosi poi tra i possibili esponenti della direzione strategica delle brigate rosse che si riunivano in quel periodo a Firenze. Era stato proprio un magistrato fiorentino, Tindari Baglione, a rivelare davanti alla commissione Pellegrino la “comunanza di consulenti” fra lo Stato e l’organizzazione terroristica. Non parliamo poi dell’amarezza procurata ancor prima a Cossiga dalla scoperta dell’appartenenza dei vertici militari e di sicurezza di quel periodo alla loggia massonica P2, forse non molto interessata -diciamo così- a garantire il salvataggio di Moro.In questo curioso processo postumo a Cossiga promosso dalle reazioni di Giancarlo Caselli ai rapporti, epistolari e non, avuti dall’ex presidente della Repubblica con i terroristi dopo la loro sconfitta - come ha giustamente precisato la figlia- mi ha sorpreso anche come lo stesso Caselli si sia lasciato sfuggire il peso di questioni personali nella sua ostinazione accusatrice. Egli non ha solo ricordato le indagini da lui condotte come magistrato a Torino nel 1980 che rischiarono di tradursi in un processo all’allora presidente del Consiglio davanti alla Corte Costituzionale per l’affare del figlio terrorista del collega di partito Carlo Donat-Cattin: processo svanito per la protezione garantita a Cossiga dalla maggioranza del Parlamento, convinta che egli non avesse voluto favorire la latitanza del figlio dell’amico rivelandogliene la posizione. Caselli ha anche rinfacciato a Cossiga, per quanto morto da dieci anni, di avere mandato o fatto mandare per posta, ridotta in coriandoli in una busta, la ricevuta di ritorno di una lettera raccomandata scrittagli dalla moglie del magistrato in difesa del marito che l’allora presidente della Repubblica soleva criticare pubblicamente, forse non dimentico di quella vicenda del 1980.