L’ultima traccia della società è confinata nel rettangolo della sala colloqui, un acquario di sedie e tavolini bianchi spogliati di ogni conforto. Dal vetro della sala perquisizioni si contano tre uomini, arrivati come alieni in un pianeta che può ospitarli per il tempo di un abbraccio.

Per il resto la sezione femminile del carcere di Bologna, la Dozza, è una comunità di sole donne. Il mondo chiuso delle ragazze, il cui recinto di sbarre permette ancora di intuire il cielo azzurro e il destino del vicinato, quando nel pomeriggio le voci del campetto da calcio attraversano le mura alte e spesse che le separano dall’istituto maschile.

A loro, le ragazze, basta sapere che quel campetto è più grande del loro, un fazzoletto d’erba con una rete da pallavolo che non usa nessuno. Non sotto i nostri occhi, e le linee di terra consumate all’infinito suggeriscono che non sia un caso: le detenute che girano in tondo preferiscono sgranchirsi le gambe finché possono, prima di tornare in cella per il “carrello” del pranzo. Non che sia un’attesa gradita. Il cibo in carcere è una schifezza che fa male al corpo e all’anima. Ma la vera fame è di ascolto, disperato bisogno di ricordarci che ci sono anche loro.

«Oggi ho cucinato pasta allo scoglio», grida una ristretta che fa capolino dalla finestra. Ma temiamo che sia tutto un sogno. Noi le possiamo rubare solo qualche parola. Da visitatore devi rispettare rigide regole, anche se la comunità del carcere ti prende con sé. Si comincia dai piani alti, le stanze del direttore. I nostri Caronte sono gli educatori del ministero, due dei dieci previsti dalla pianta organica. Adesso ne manca soltanto uno, ma ce ne vorrebbero tanti di più.

Ognuno di loro ha in carico almeno un centinaio di persone, donne e uomini dell’istituto penitenziario più grande della Regione. Il giovedì hanno da fare: è il giorno dell’equipe. Alle prese con il linguaggio esclusivo di chi abita il carcere, ne sentiamo parlare in ogni angolo del penitenziario prima di capire di cosa si tratti. Lo prevede l’articolo 13 dell’Ordinamento penitenziario: “Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento”.

Come parte dell’equipe, gli educatori stilano una relazione di sintesi. Ma l’ultima parola spetta al direttore dell’istituto, Rosalba Casella. A cui non manca il coraggio di incentivare le misure alternative, dice chi ci accompagna. «Bologna ha 65 detenuti in sezione semilibertà, se non credessi nelle misure alternative e nell’utilità dei percorsi esterni che sono parte del percorso trattamentale del detenuto non avrei lavorato in questa direzione. Nessuna detenzione produce effetti gettando via la chiave: il percorso di reinserimento deve necessariamente prevedere che la persona rientri in società e che torni cambiato, con alcune opportunità che non ha avuto quando è entrato, altrimenti il dettato costituzionale resta inattuato», spiega Casella.

Il Dubbio visita la sezione femminile del carcere la Dozza di Bologna. Il direttore Rosalba Casella: "Gli spazi dei penitenziari sono pensati per gli uomini". Servizio di Emilio Minervini

La risposta al sovraffollamento che affligge tutte le carceri italiane non può essere la costruzione di nuove carceri. Anche Bologna ne soffre, come tutti gli altri istituti: quasi 800 detenuti su 507 posti regolamentari. Le donne sono 92, di cui 9 in semilibertà. Per loro c’è sempre meno da fare negli istituti pensati per soli maschi, ammette la direttrice. Gli spazi sono ricavati come e dove si può, a cominciare dalla piccola palestra che accoglie i corsi di kickboxing. Per fortuna, dicono, il nido è vuoto. Anche se ci sono tante madri lontane dai figli.

Le “stanze dell’amore” costruite nello spazio esterno sono pronte, e saranno attivate quando si potrà finalmente applicare la sentenza della Consulta sul diritto all’affettività. Le ragazze sono divise tra il braccio A e B, detenute definitive e in attesa di giudizio. Due per cella, in un reparto pieno fino all’ultimo letto. Tanto da impedire alle agenti penitenziarie di recuperare un spazio di serenità quando la convivenza tra “concelline” va in frantumi.

«Il sovraffollamento porta dei gran problemi. Se due detenute litigano non possiamo separarle, e allora cosa si fa? Chiediamo alle detenute di altre stanze. E così si scombussolano tutte. Il fatto è questo: finché riusciamo a gestirle possiamo aiutarle, altrimenti subiamo, subiamo, subiamo», ripete la sovrintendente a guida delle agenti in reparto. Una di loro è appena rientrata da un periodo di malattia: nel gergo si dice che “ha preso una blindata” sul braccio.

In una mano stringe le chiavi grosse e dorate che aprono celle e cancelli, nell’altra un mucchio di cartine sottratte alle detenute, che con le scope si scambiano il necessario per fumare sotto le porte. «Non hanno pazienza di aspettare», dice sorridendo un’agente. Deve essere rigida anche quando non vorrebbe, o non riuscirà a mantenere il controllo che la situazione richiede. Il tempo di un caffè con la moka solleva anche loro dalle faccende del carcere. Ma per il resto del tempo devono fare più di ciò che gli compete, dicono: devono agire per la sicurezza, mentre fanno anche da educatori e psicologi. Impietrite di fronte all’ennesimo tentativo di suicidio, quando strappano loro in tempo la corda dal collo.

Non sempre ci riescono, come non ci sono riuscite per la donna che si è tolta la vita nell’ultimo anno. La popolazione detenuta è cambiata, ripetono le agenti, e la maggior parte delle recluse dovrebbe stare fuori dal carcere, nelle comunità. Oltre alle persone ristrette nell’inaccessibile zona dell’articolazione mentale, tutte le altre soffrono dentro le loro celle, dentro le loro storie di tossicodipendenza che sembrano ripetersi sempre uguali. Fuori e dentro, un piccolo reato dietro l’altro fino ad accumulare la pena.

«E intanto i pesci grandi stanno a spasso», grida una detenuta che prende il sole al “passeggio”. Una “zona grigia” illuminata dal sole nella sua immensa vuotezza, il set di un truman show che non sta per finire. Le ragazze ci stanno per due ore al mattino e due ore al pomeriggio. Alle 18 chiude tutto, anche la mobilità dentro il braccio, un altro giorno è finito.

«Io non li conto, ma ringrazio quando arriva sera, per ogni giorno che passa», dice Sandra. Una delle due detenute autorizzate a parlare con noi insieme a Sonia. Davanti alle telecamere che abbiamo piantato nella sala cinema del carcere raccontano lo stesso sogno di libertà: un piatto di patatine fritte, un hamburger e una birra gelata. Analcolica, purché sappia di come sanno le cose nel mondo di fuori.

Una di loro partecipa al teatro ed è già impiegata come sarta, grazie alla cooperativa di Gomito a gomito attivo nel carcere. Fa questo lavoro da anni, ma ha cominciato come “spesina” e poi come “scopina”. Questo offre l’istituto per donne, che è già più di quanto offrano altre sezioni femminili in Italia. Anche se è poco, per chi sogna di costruirsi una vita per quando sarà fuori.

«Mi piacerebbe tanto fare l’aiuto cuoco, così potrò guadagnare e permettermi una casa quando sarò uscita», sussurra una ragazza attraverso le sbarre che ci separano. Ma il lavoro e l’istruzione, anche qui dentro, sembra affare da maschi. «Non è una questione di femminismo, ma per noi il carcere è diverso perché siamo diverse dagli uomini», dice Sandra. È colombiana ma parla benissimo l’italiano, legge tanto, e cerca di mascherare la sua cultura per farsi accettare dalle altre compagne che non hanno bisogno di “maestrine”.

L’ultimo libro? “Le disobbedienti: Storie di sei donne che hanno cambiato l'arte” di Elisabetta Rasy. Deve essere uno di quelli donati alla biblioteca del carcere, che li mette gratuitamente a disposizione delle detenute quando i volumi donati non sono troppo vecchi e malconci. Tutto il resto bisogna acquistarlo con il sopravvitto, compresa l’acqua profumata che dovrebbe assomigliare a un vero profumo.

Gli assorbenti, quelli sì, li fornisce l’istituto. Per ogni attività bisogna compilare la cosiddetta “domandina” e aspettare, aspettare, aspettare. Ogni oggetto è un vezzo che bisogna potersi permettere. A cominciare dal fornellino per cucinare in cella. Magari una tortina per i familiari che si fanno ore di viaggio per un’ora di colloquio, finché nella sala colloqui erano ammessi gli alimenti che ora sono banditi.

Sembra questione di niente, dice Sandra, e invece per lei è tutto. I figli che l’aspettano, insieme alla fede, l’hanno salvata dal gesto più estremo. Poi anche qui dentro ci si abitua, la prigionia col tempo fa meno paura, e al contrario è della libertà che non si sa più cosa farsene. Qualcuna ha il terrore di uscire, qualcuna spera ancora in una seconda chance. «Ma se muore il Papa ci danno l’amnistia? Comunque noi non vogliamo che muoia...».