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Il ministro Giulia Bongiorno lancia almeno un appello alla settimana: «Fate presto». Si rivolge al Parlamento, dov’è all’esame la legge sul “codice rosso”, ossia la corsia preferenziale per le indagini sulle violenze di genere. Un disegno di legge che è stato condiviso con il guardasigilli Alfonso Bonafede e che la titolare della Pubblica amministrazione coltivava da anni. Ne aveva fatto l’obiettivo dell’associazione “Doppia difesa”, in cui si è impegnata insieme con Michelle Hunziker. Ieri la commissione Giustizia di Montecitorio ha svolto una nuova giornata di audizioni e ha sentito anche una componente del Consiglio nazionale forense, l’avvocata Maria Masi, che sul tema delle tutele nei confronti delle donne e in generale della parità ha alle spalle incarichi nelle istituzioni forensi, a cominciare dal coordinamento della rete “Comitati pari opportunità”. È stata interpellata su tutti i punti qualificanti del ddl governativo. In particolare sull’introduzione dell’obbligo, per il pm, di ascoltare la vittima di violenze in famiglia entro 72 ore dalla querela. «Chi come la deputata Annibali ha firmato altre proposte di legge collegate teme che la previsione possa insinuare nella donna l’idea che il magistrato consideri in partenza scarsamente attendibile la sua denuncia», spiega Masi. «Perciò si propone di precisare che l’assunzione di informazioni va fatta se la vittima “ne fa richiesta”. Ho detto che può andar bene, ma anche che un simile fenomeno non si fronteggia con la singola specifica misura ma con l’integrazione di diversi interventi». La Convenzione di Istanbul, ricorda la consigliera Cnf, «sintetizza la strategia da adottare nelle tre “P” di “protezione, prevenzione e punizione”. Ecco, nessuna delle tre risposte basta, servono tutte e certo la tempestività dell’azione giudiziaria, fissata nel ddl del governo, è importante. Come lo è la previsione di informare la vittima sulle misure cautelari imposte alla persona denunciata, in modo che sappia se quest’ultima potrebbe avvicinarsi di nuovo».
La fretta di Bongiorno, tradotta in nuove regole per le indagini, è legata a una constatazione: il tempo è fattore decisivo rispetto alla possibilità di prevenire i reati più gravi. Da ultimo è tornato sul punto il “Rapporto ombra” delle “Donne in rete contro la violenza – D. i. Re” ( di cui diamo conto anche in altra parte del giornale, ndr). «La legislazione italiana in materia», vi si legge, non è «implementata in modo fa dare risposte efficaci a donne e figli». Ci sarebbero «ancora troppi ostacoli, sia con le forze dell’ordine, che con i professionisti socio- sanitari, dovuti non solo alla scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza». Una versione esasperata, forse, di un concetto che in modo meno catastrofista è stato rilanciato dalla stessa Bongiorno pochi giorni fa in un’intervista alla Rai: «Spesso non viene percepita l’urgenza», ha detto «quando le donne denunciano». Cosa che fino a qualche annoi fa, peraltro, avveniva con minor frequenza: «Prima il problema era convincere le donne ad andare in Procura o dai carabinieri: da questo punto di vista è stata fatta un’operazione culturale importante. Ma poi le denunce restano sulle scrivanie dei magistrati con tanti altri fascicoli». E magari, quando finalmente si procede, si è già precipitati dal maltrattamento in famiglia a reati più gravi.
Sulla formazione e la ricettività delle forze dell’ordine si è espressa nei giorni scorsi anche l’Associazione italiana giovani avvocati, a propria volta audita in commissione Giustizia: c’è una «necessità di formazione degli operatori carcerari ed extracarcerari», secondo la nota diffusa dall’Aiga, «affinché la pena possa svolgere appieno la funzione rieducativa del reo». Aspetto da nonn sottovalutare: si fa prevenzione anche col recupero di chi ha già commmesso reati di genere. All’articolo 4 del ddl governativo infatti si parla di corsi destinati anche alla «polizia penitenziaria», dunque anche al «trattamento delle persone condannate» per i reati contro donne e minori. Resta quell’alea di rischio, che ancora Aiga segnala: «La maggior tutela delle vittime non deve contrastare in alcun modo con la tutela dei diritti dell’indagato/ imputato e col principio della presunzione di innocenza».
Sembra un pericolo controllabile: formare le forze di polizia a prendere sul serio le donne che denunciano potrebbe essere l’occasione per istruirle anche a un approccio costruttivo con chi sconta la pena. Sarebbe una doppia rivoluzione culturale, persino insperata.