PHOTO
Sono detenuti che hanno finito di scontare la pena, ma rimangono in carcere perché considerati ancora socialmente pericolosi. Parliamo degli internati. Sulla carta vengono raggiunti da una misura di sicurezza presso una “casa lavoro”. Ma è sempre in carcere: le case lavoro hanno celle, sbarre, agenti e addirittura gli internati non godono dei benefici penitenziari dei detenuti stessi. «Oggi le case lavoro sono popolate da disperati, malati di mente, tossicodipendenti, infermi, stranieri senza documenti, persone fragili», dice Alessandro Prandi, Garante della Città di Alba, intervenendo nel convegno organizzato da Bruno Mellano, il garante della regione Piemonte. È un incontro in videoconferenza, intitolato “Senza CASA, senza LAVORO: gli internati in misura di sicurezza e il caso Piemonte”, organizzato dal garante piemontese. Abruzzo, Emilia Romagna e Piemonte sono le regioni con più internati «La nostra regione, del resto, con 53 internati nella sede di Biella, è sul podio per numero di soggetti interessati. 78 sono in Abruzzo, 54 in Emilia Romagna, 35 in Sicilia, 23 in Sardegna eccetera», ha ricordato Mellano, chiarendo che «la situazione subalpina è ancora più difficile, perché al momento si definisce Casa-Lavoro una sezione del carcere di Biella, con la prospettiva incerta di spostare gli internati suddividendoli fra Alba ed Alessandria. Sempre rigorosamente in ambito penitenziario». Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, ha portato un saluto iniziale, ricordando che «l’attuale casa lavoro ha poco di dissimile rispetto alla detenzione e nel caso di rilascio le persone si ritrovano a tornare nel loro contesto, ma senza casa e senza lavoro». D’accordo anche Sonia Caronni esperta di esecuzione penale, Garante della Città di Biella, ricordando che «si tratta di percorsi di reclusione lunghissimi, che alienano totalmente dalla vita esterna le persone che passano anni e anni all’interno di queste strutture. È risultato quasi impossibile il reinserimento nella società, quando abbiamo provato». Per Francesco Maisto, Garante dei detenuti di Milano, «il concetto di pericolosità sociale ha un’inconsistenza scientifica. La domanda a questo punto è: assimilando di fatto la pena e la misura detentiva a queste misure restrittive, non è fondato porre una questione di costituzionalità su questo punto?». Katia Poneti, esperta giuridica presso il Garante della Toscana, ha sottolineato che «i reclusi non sono persone con una carriera criminale, ma molto spesso soggetti con gravi problemi personali». Per Marco Pellissero, Docente di Diritto Penale dell’Università di Torino, «le misure di sicurezza per i soggetti imputabili sono anche una palese truffa delle etichette, specie quando l’esecuzione della misura si identifica sostanzialmente con l’esecuzione della pena». Stefano Anastasia, Portavoce nazionale dei Garanti regionali e territoriali, ha concluso i lavori sostenendo che «le necessità di contenere la marginalità è frutto di una cultura penalistica e giuridica del secolo scorso, che io considero incompatibile con i principi costituzionali. Oggi è decontestualizzata rispetto a quella casa di lavoro che si pensava di realizzare e quindi dovremmo semplicemente e radicalmente cancellarla». Residuo della concezione fascista Gli internati – definizione che richiama il vecchio linguaggio manicomiale – vivono in carcere a tempo quasi indeterminato, nonostante non abbiano una pena inflitta. Il rischio è di scontare, di fatto, una lunghissima pena nonostante abbiano già fatto i conti con la giustizia. Gli internati, infatti, chiamano la loro condizione “ergastolo bianco”, perché la misura di sicurezza può essere prorogata diverse volte. Il motivo? Subentra un meccanismo nel quale, non lavorando di fatto, gli internati non offrono elementi per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità. A quel punto non possono che scattare le proroghe dell’internamento. Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua. A far fronte a questo problema, ai sensi dell’art. 1 comma 1ter del D.L. 31 marzo 2014 n. 52 così come convertito in legge 30 maggio 2014 n. 81, si prevede che «le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima».Questi internamenti sono misure che risalgono al codice fascista Rocco, non a caso diversi giuristi le definiscono “reperti di archeologia giuridica”. Reperti che hanno anche una definizione ben precisa “il doppio binario”. In attesa della Consulta sul 41 bis Come annunciato da Il Dubbio a settembre scorso, la Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati Valerio Vianello Accorretti e Piera Farina, chiedendo alla Consulta di esprimersi sulla legittimità degli internati al 41 bis. La corte di Cassazione ha infatti recepito il problema e ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del 41 bis comma 2 e 2 quater, nella parte in cui prevedono la facoltà di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento nei confronti degli internati. La Cassazione, oltre a fare riferimento alla violazione dei vari articoli della Costituzione, ha anche fatto riferimento all'articolo 4 del protocollo 7 della Cedu. Un passaggio significativo, perché tale articolo della Convenzione europea dei diritti dell'uomo parla del diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso fatto. In effetti, applicare il 41 bis a una persona che ha finito di scontare la sua pena è una doppia punizione.Dalle motivazioni, si evince che la prima sezione della Cassazione censura la sottoposizione degli internati al 41 bis con riguardo a tre aspetti. Il primo. Il regime del 41 bis applicato agli internati rende sostanzialmente identico il concreto regime applicativo della pena e della misura di sicurezza detentiva assoggettando alla medesima regolamentazione istituti funzionalmente differenti e obliterando la distinzione - riconosciuta in Costituzione - tra gli stessi. Il secondo aspetto riguarda il fatto che l’applicazione del 41 bis costituisce un elemento che influisce sulla durata della misura di sicurezza; sino a quando l’internato sarà sottoposto al regime duro, non potrà accedere a misure extramurarie rendendo pressoché impossibile la sperimentazione di un effettivo percorso di recupero e perciò anche la revoca o comunque la sostituzione della misura di sicurezza detentiva. Tanto più che il perdurare della applicazione del regime differenziato presuppone una situazione che non consente di escludere la perdurante pericolosità del soggetto. Il terzo aspetto, invece, riguarda il dubbio che nello spazio giuridico europeo le misure di sicurezza per soggetti imputabili siano incompatibili con la garanzia fondamentale del “ne bis in idem”, se le stesse non risultano realmente differenziabili dalla pena, non soltanto a causa della loro diversa finalità ma soprattutto in ragione di modalità di esecuzione radicalmente differenziate. Ora sarà la Consulta a dichiarare o meno l’illegittimità costituzionale. Ancora una volta ci dovranno pensare i giudici, anziché la politica sempre più ostaggio degli umori.