«Il carcere è un buco nero. Ci vogliono zitti e buoni». Il microfono è in mano a un personaggio politico. Il palcoscenico, però, non è quello a cui per anni è stato abituato. Si tratta di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma. La sua voce rimbomba nella sala “Meta” del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso: uno stanzone semplice ma elegante, con pareti bianche a mattoncini e finestre alte, sbarrate, sul lato destro.

Il lungo corridoio che conduce alla sala Meta è spezzato da una serie di cancelli blu. A sinistra si può intravedere un campo da gioco, simulacro di un mondo che per un po’ rimarrà fuori. Alemanno, magro, in giacca azzurra acetata, spiega ai giornalisti seduti alla sua sinistra com’è la vita in carcere: un buco nero, appunto, dove finiscono non solo le persone, ma anche le parole — prima abbondanti durante il lungo percorso delle indagini e dei processi, poi improvvisamente mute. Perché di carcere si parla poco. È un tema «stagionale» — se ne discute a Natale, a Pasqua e durante l’estate, quando ci sono meno notizie o quando certi argomenti sono più adeguati — dice un altro detenuto, uno dei partecipanti al laboratorio di giornalismo che ogni mercoledì Stefano Liburdi, giornalista de Il Tempo, conduce con un gruppo di loro.

A organizzare il faccia a faccia tra detenuti e giornalisti è stato il Cnel, in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata, che ha attivato il progetto “Università in Carcere”. «Ma sa cosa scrivono i giornali quando parlano di carcere?», chiede mentre ci riaccompagna all’uscita Serena Cataldo, assegnista di ricerca del progetto Rome Technopole. «Del personaggio famoso che si è iscritto. Niente numeri, niente significati. Solo quello».

Molti dei presenti nella sala Meta sono studenti della facoltà di Scienze della Comunicazione. L’idea è quella di riportare la parola dentro il carcere, aprire una finestra tra il dentro e il fuori. O meglio costruire un «ponte», la parola più pronunciata della giornata, tra chi la società vuole tenere nascosto e chi, fuori, non vuole vedere. Ogni detenuto è una storia, e ogni storia richiede tempo: l’unico antidoto contro un racconto che toglie dignità ai detenuti e agli indagati.

«È un mondo che merita di essere raccontato», insiste Alemanno. Chiede un intervento sul regolamento del Dap — «risale al 1975», fa notare uno degli studenti del laboratorio — per scrivere nuove regole che permettano di raccontare davvero il carcere. E toglierlo dal cono d’ombra. Nella saletta, seduti a coppie alle scrivanie color legno, i detenuti del braccio G8 ascoltano con attenzione. Alcuni hanno l’aria accigliata. «Quando qualcuno muore in carcere scrivete una riga e poi ve ne dimenticate», dice un uomo, liberandosi finalmente di un peso. Sembra diffidare dei presenti, che possono solo annuire. Eppure tra loro ci sono alcuni dei giornalisti più sensibili al tema, come dice Alessandro Barbano, direttore de L’Altra Voce, che conduce i lavori insieme a Marina Formica, ordinaria di Storia Moderna a Tor Vergata. Forse non abbastanza per loro.

«Quella che vedete qui è una sezione che sembra un Grand Hotel a confronto di altre», spiega ancora l’ex sindaco. «Ma questa stanza non rappresenta l’intero carcere. Basterebbe fare due rampe di scale per vedere le celle: rimarreste scioccati. Dove una volta ci si stava in quattro ora ci stanno sei persone». E non è nemmeno il peggio. «Qualche giorno fa dovevo fare una visita - spiega -. Mi sono preparato, ma poi la scorta non è arrivata. Il mio era un controllo da niente, ma pensate a quanta gente malata succede. Quello delle scorte è un problema serio». Un detenuto in maglia verde e occhiali prende la parola: «Io ci tengo all’ambiente, penso che tutti vorremmo uscire da qui e respirare aria pulita», racconta. «Vedo in tv il governo celebrare la giornata dell’ambiente, poi mi giro e mi ricordo che qui dentro l’acqua deve scorrere tutto il giorno per sostituire il frigorifero. Ma se ci facessero lavorare, magari, potremmo fare una colletta e comprarli». Un concetto semplice ma che racchiude dentro mille significati.

Un altro detenuto ha conseguito una laurea in Giurisprudenza. Stava per prenderne una seconda, ma a quattro esami dalla fine il magistrato di sorveglianza gli ha negato il permesso premio: il suo fine, a detta del giudice, non era «rieducativo, ma edonistico». E ci ha rinunciato. «Ecco come viene intesa la cultura in carcere», osserva. Eppure, dice, è proprio la cultura ciò che serve per costruire quel ponte: per riabilitare, per ricominciare, per dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione, più volte rievocato, soprattutto dall’avvocato penalista Iacopo Benevieri, responsabile della Commissione per la linguistica giudiziaria dell’Ucpi. Un articolo che qualcuno, aggiunge un altro uomo, vorrebbe stracciare. «C’è chi pensa che il sovraffollamento si risolva costruendo nuove carceri. Ma perché nessuno spiega a questi politici che mentre loro progettano nuove strutture, per le quali ci vogliono anni, il numero dei detenuti aumenta di 450 unità al mese? Quando avranno finito, sarà ancora troppo tardi», sottolinea.

Un altro, in carcere da oltre tre anni e mezzo e ormai prossimo alla fine della pena, ricorda che la gru per il reparto G10 è lì dal giorno del suo ingresso, senza che sia mai stato posato un solo mattone. «Il tasso di affollamento in Italia è in media del 140%, il più alto in Europa», denuncia. Un dato che, secondo lui, rende vana qualsiasi riforma. «Ci sono norme e norme, ma poi ogni giudice di sorveglianza le applica come vuole. Qui c’è gente di 83, 87 anni. Ma che ci deve fare una persona a quest’età in carcere? Qualunque cosa abbia fatto, a cosa serve?», si inalbera. «Si potrebbero scarcerare 15mila persone. Persone malate. Ma non lo fanno. Raccontatele queste cose, fate ascoltare la nostra voce. Rompete questo silenzio», incalza.

Poi c’è chi racconta la propria storia. Storie note, che hanno infiammato la cronaca giudiziaria italiana. Tanto, forse troppo, fino a influenzare la giustizia. Un giovane detenuto, in dolcevita bianco e pantalone cammello, scandisce piano le sue parole: «Sapete quanto hanno influito i media sulla mia condanna?». Si professa innocente. Ribalta la versione ufficiale — che non possiamo riportare per motivi di identificabilità — e la racconta da un punto di vista ignorato, vero o falso che sia. Ma il punto è un altro: «I giornali hanno scavato nella mia vita e in quella della mia famiglia. Ma loro non c’entrano nulla con me. Perché nessuno ha voluto parlare col mio avvocato? Perché nessuno gli ha chiesto la nostra versione dei fatti? Perché nessuno viene qui a intervistarmi per sapere cosa ho da dire? Leggete le mie carte, parlate col mio avvocato».

Silenzio in sala. Poi la precisazione: «Non possiamo trasformare questo incontro in un’intervista, non siamo autorizzati», spieghiamo sotto l’occhio attento della direttrice Teresa Mascolo. Ma non era quello il punto. Il punto era mostrare il potere della parola: che può creare, guarire, ma anche distruggere. «Sarei disposto a fare l’ergastolo se potessi far sparire da internet tutte le falsità dette su di me, affinché mio figlio non le legga mai», conclude. Una storia, la sua, simile a quella di un altro ragazzo. Anche lui giovane, troppo giovane. Tuta verde, tatuaggi, voce ferma: «I giornali scelgono una versione e la portano fino in fondo». Un j’accuse chiaro e senza sconti.

L’incontro è finito, tocca andare via. Bisogna ripercorrere al contrario lo stesso corridoio, lo stesso campo fuori dalle finestre, lo stesso blu. In attesa, tra un angolo e l’altro, si scorgono bambine aggrappate alle mani delle madri, che cercano informazioni o attendono il turno per i colloqui con i loro compagni, mariti, coi padri dei loro figli, chiamati a gran voce non appena la delegazione di giornalisti si avvia verso l’uscita. «Aria!», urla un piantone. Fuori il sole brucia. Sotto una cycas, un gatto nero dorme tranquillo, indifferente alla linea invisibile che separa il dentro dal fuori.