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Due lauree e un Master in carcere, ma per i giudici è ancora pericoloso
Detenuto nel carcere di Monza il ventiduenne Francesco Smeragliuolo con problemi di tossicodipendenza, era un soggetto ad alto rischio e per tale ragione doveva essere sottoposto a sorveglianza a vista. Così, purtroppo, non è stato. Infatti è stato ritrovato morto in una cella non sua. Gli avvocati Daniel Monni e Alessandro Ravani, come già riportato da Il Dubbio, hanno presentato una denuncia presso la procura di Monza integrandola con il reato di condotta omissiva visto che la sorveglianza risultava assente. Il pm ha chiesto l'archiviazione Ma il pm, qualche giorno fa, ha fatto richiesta di archiviazione senza indagare sulla notizia di reato denunciata. Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione, l’avvocato Monni fa presente che le condotte omissive e attive dell’amministrazione penitenziaria devono essere oggetto di attenta attività d’indagine. Parliamo del reato contemplato nell’articolo 572 del codice penale. Una notizia di reato che, però, è rimasta lettera morta con la richiesta di archiviazione. Un via crucis in carcere Nell’opposizione si ripercorre tutta la via crucis del ragazzo incarcerato. Egli era conosciuto dall’equipe del carcere di Monza, noto anche, e soprattutto, per i dolori acuti dovuti dalla sua patologia. Come si legge nell’opposizione, «nel susseguirsi dei giorni intercorrenti dal 2.05.2013 – data di ingresso in carcere- al 8.06.2013 – data del decesso - Francesco aveva, in numerose e ricorrenti occasioni, mostrato la propria sofferenza e chiesto aiuto ma, ciononostante, non venne ascoltato». In effetti, le sue richieste di aiuto sono scalfite nel suo diario clinico: con crescente insistenza, infatti, il ragazzo riferiva il proprio malessere, le proprie fobie, il forte senso di nodo alla gola, ansia non controllata e idee di morte. Il 28 maggio del 2013, quindi qualche giorno prima della sua morte, Francesco arrivò addirittura a compiere gesti autolesivi e riferì di averlo fatto, perché “non ce la faceva più”. L'altissima sorveglianza che non è mai arrivata Immediatamente dopo questo episodio, è stato richiesto un regime altissima sorveglianza nei suoi confronti. Ma, di fatto, mai attuato. La prova, d’altronde, è da ritrovare proprio nel momento in cui è stato ritrovato morto. Quel tragico giorno dell’8 giugno 2013, Francesco si trovava in una cella diversa dalla propria privo di adeguata sorveglianza: il personale del 118, non a caso, giunse all’interno della cella numero 606 solo un’ora dopo il crollo del ragazzo a terra. Nell’opposizione all’archiviazione, l’avvocato Monni sottolinea il fatto che Francesco, negli ultimi 37 giorni della sua vita, ha vissuto in uno stato di grave sofferenza psicofisica, con tanti di gesti autolesivi. La madre testimonia che, all’ultimo colloquio, Francesco risultava notevolmente dimagrito rispetto a quando aveva fatto ingresso in carcere. La salma è risultata piena di escoriazioni e lo screening biologico ha evidenziato la presenza di diversi psicofarmaci. Perché chiedere l’archiviazione senza nemmeno indagare visto la notizia di reato? Ricordiamo che recentemente la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per il suicidio di un detenuto avvenuto 19 anni fa. Il motivo della condanna? Le autorità non hanno garantito il “diritto alla vita” che obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Lo stesso diritto, quello alla vita, che doveva valere anche per Francesco. «Difficile spiegare a una madre – spiega a Il Dubbio l’avvocato Daniel Monni - questa richiesta di archiviazione. Potrei dirle, usando parole di altri ben più illustri, che la giustizia si manifesta solo a chi ci crede e, conseguentemente, con fatica, con perseveranza, con lo scorrer del tempo. In realtà, però, l'iscrizione di una notizia di reato non è stata accompagnata dalle indagini. Non vorrei tristemente dirle che la giustizia è un atto di fede». Parole amare, ma è quello che è accaduto. Lo Stato vorrebbe archiviare, i suoi familiari no.