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Piercamillo Davigo
L’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione di segreto di ufficio, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia, Federica Brugnara, per il caso della diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia "Ungheria". Un rinvio a giudizio che arriva casualmente nel giorno del trentennale dell’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, da cui scaturì l’inchiesta Tangentopoli, che vedeva tra i magistrati del pool anche Davigo, rinominato "dottor Sottile". La vicenda è l’ormai nota “consegna” dei verbali di Amara a Davigo: ad aprile 2020 Paolo Storari (per il quale il pm ha chiesto la condanna a 6 mesi), che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, consegnò i verbali delle sue dichiarazioni al consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte del procuratore Francesco Greco (la cui posizione è stata archiviata) e dell’aggiunta Laura Pedio nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Per l’ex pm di Mani Pulite, tutto sarebbe avvenuto nel rispetto della legge: è stato lui, infatti, a rassicurare il pm milanese sulla liceità di quella procedura, richiamandosi ad alcune circolari del Csm stando alle quali «il segreto investigativo non è opponibile al Csm». Per la procura di Brescia, però, le due circolari non sono applicabili al caso specifico: esse non fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Storari, dunque, avrebbe agito «in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari». Su Storari, che ha scelto il rito abbreviato, il giudice si pronuncerà il 7 marzo. Davigo, dal canto suo, avrebbe violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara. E non si limitò a ricevere i verbali, ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita» (che si è costituito parte civile), che in realtà è precedente alla vicenda Amara. L’ex pm ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera, Ilaria Pepe, per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli. A vederli sarebbe stato anche il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione», pur riferendo il fatto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad essere informati furono anche Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita, e le due segretarie di Davigo, Marcella Contrafatto – che secondo la procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo e alla stampa – e Giulia Befera.