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La questione non è solo etica o sanitaria. È una questione di intelligenza politica. Chi entra in carcere, nella stragrande maggioranza dei casi, poi torna nella società. Un detenuto vaccinato è un cittadino più protetto. E una comunità più sicura. Per questo motivo sono state pubblicate le prime linee guida a livello europeo per rafforzare i servizi vaccinali negli istituti penitenziari. Il documento, intitolato “Rafforzare i servizi vaccinali negli istituti penitenziari: linee guida di sanità pubblica”, è il risultato del progetto RISE- Vac (Reaching the hard- to- reach: increasing access and vaccine uptake among prison populations in Europe), finanziato dal 3° Programma Salute dell’Ue e coordinato dall’Università di Pisa.
L’annuncio arriva in prossimità della European Immunization Week (EIW) 2025, iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che quest’anno mette l’accento sull’importanza di garantire coperture vaccinali eque in tutte le comunità, inclusi i contesti più vulnerabili. Il progetto, guidato da Lara Tavoschi, professoressa di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa, ha coinvolto nove istituzioni partner in sei Paesi (Italia, Regno Unito, Francia, Germania, Cipro e Moldova).
L’obiettivo è migliorare l’accesso alle vaccinazioni per le persone detenute, spesso esposte a un rischio elevato di malattie infettive a causa di sovraffollamento, scarsa igiene e alta mobilità tra carcere e comunità. «Queste indicazioni – spiega Tavoschi – sono un passo avanti fondamentale per la promozione della salute pubblica in contesti caratterizzati da elevata vulnerabilità. I principali benefici attesi dalla loro adozione sono l’aumento della copertura vaccinale tra le persone detenute, il miglioramento dell’equità e dell’accesso alle cure, il rafforzamento della continuità assistenziale post- detenzione, nonché un coinvolgimento attivo di personale e detenuti tramite strumenti educativi mirati».
Le raccomandazioni sono già state presentate alle istituzioni sanitarie e penitenziarie dei Paesi coinvolti, dove sono in corso le prime applicazioni pilota. Uno degli elementi distintivi del progetto RISE- Vac è stato lo studio sul campo, che ha coinvolto vari istituti penitenziari con un approccio fortemente partecipativo. Detenuti e personale penitenziario, ad esempio, sono stati attivamente coinvolti nella co- creazione di materiali educativi multilingue - tra cui video, opuscoli e percorsi formativi - disponibili gratuitamente sul sito del progetto. «Con la pubblicazione di queste indicazioni – conclude Tavoschi – l’Università di Pisa consolida il proprio ruolo guida nella ricerca europea per la salute pubblica e contribuisce concretamente alla definizione di strategie vaccinali più inclusive ed efficaci, anche nei contesti più complessi».
COME TRASFORMARE L’EMERGENZA IN ROUTINE
Il documento parte da un dato: oltre 11 milioni di persone sono detenute nel mondo. Ogni anno, più di 30 milioni entrano ed escono dal sistema penitenziario. Nella sola regione europea dell’Oms, oltre un milione e mezzo di persone si trovano in stato di detenzione in qualsiasi momento. La prigione è spesso l’approdo di una lunga catena fatta di povertà, marginalità e carenze sanitarie. Eppure, i bisogni sanitari di chi si trova recluso restano troppo spesso ignorati, con conseguenze che vanno ben oltre le mura del carcere. Chi vive in prigione – minorenni, migranti, detenuti in attesa di giudizio – è più esposto a malattie infettive prevenibili da vaccino ( VPD), ma risulta frequentemente sottoimmunizzato.
La realtà delle carceri – strutture vecchie, sovraffollate, con scarsa ventilazione e popolazione transitoria – le rende un terreno fertile per la trasmissione di virus. Nonostante la scarsità di dati sistematici, le evidenze raccolte parlano chiaro: in prigione la salute è fragile, e i sistemi per proteggerla sono discontinui o frammentati. Eppure, il periodo di detenzione potrebbe essere l’occasione per colmare lacune profonde e garantire interventi sanitari basilari, a partire proprio dalle vaccinazioni. La vaccinazione è uno degli strumenti più efficaci e meno costosi per proteggere la salute pubblica, ma nei penitenziari l’offerta vaccinale è spesso disorganica. In molte realtà europee manca una linea guida uniforme che assicuri pari trattamento, con il risultato che l’accesso ai vaccini varia enormemente da paese a paese e da carcere a carcere.
È in questo contesto che nasce il progetto europeo RISE- Vac, cofinanziato dalla Commissione Europea e attivo in sei Paesi dal 2021. L’obiettivo è semplice: migliorare la disponibilità e l’assunzione dei vaccini in ambiente carcerario, mettendo a sistema strategie, strumenti e modelli per rafforzare i programmi vaccinali dietro le sbarre.
LA LOGICA È QUELLA DELLA PARITÀ DI TRATTAMENTO
Le Regole minime standard delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti (note come Regole Nelson Mandela) richiamano il principio della parità di trattamento: la sanità in carcere è responsabilità dello Stato e deve essere gratuita, indipendente e connessa al sistema sanitario pubblico. Alle Mandela Rules si affiancano le Regole di Bangkok, che sottolineano le esigenze sanitarie specifiche delle donne detenute. Dopo il Covid- 19, anche le Nazioni Unite hanno ribadito la necessità di riformare le politiche detentive e affrontare il sovraffollamento e la trascuratezza dei servizi sanitari in carcere, ribadendo un concetto fondamentale: “la salute in carcere è parte integrante della salute pubblica”.
Il gruppo di lavoro di RISE- Vac ha definito un approccio integrato, coinvolgendo esperti di vari settori e raccogliendo dati attraverso rassegne, focus group e indagini nelle carceri. Il risultato è una guida pratica per rafforzare l’immunizzazione in ambito penitenziario, con particolare attenzione ai richiami vaccinali e ai programmi di recupero per chi ha perso le dosi previste.
Le malattie come difterite, tetano, pertosse, morbillo, rosolia, parotite, varicella e polio non sono scomparse. In ambienti chiusi come le carceri, una sola infezione può trasformarsi in focolaio. Per questo il primo passaggio fondamentale è la verifica dello stato vaccinale all’ingresso, con controlli attraverso certificati, sistemi informativi o test sierologici. Dove i dati mancano, si propone la somministrazione diretta del ciclo completo, senza attendere analisi aggiuntive. Le vaccinazioni devono coinvolgere anche il personale penitenziario, spesso dimenticato nelle strategie di prevenzione. Le difficoltà, certo, non mancano: dalla carenza di risorse alla diffidenza dei detenuti. Per superarle servono privacy, informazione, ascolto, oltre a personale formato e disponibile.
Un’attenzione particolare va riservata ai minori e ai migranti. I primi hanno diritti sanitari diversi rispetto agli adulti e devono ricevere lo stesso trattamento dei coetanei liberi. I secondi, spesso privi di documentazione sanitaria, hanno bisogno di approcci flessibili, supportati da mediatori culturali e comunicazione efficace. E poi ci sono le malattie oncologiche prevenibili da vaccino, come quelle legate all’epatite B ( HBV) e al papillomavirus (HPV). L’infezione da HBV è particolarmente diffusa tra i detenuti a causa dell’uso di droghe iniettive o di rapporti sessuali non protetti. Anche l’HPV, causa principale del tumore alla cervice uterina e di altre neoplasie, è più diffuso tra le detenute, spesso escluse dai programmi di screening. Qui la raccomandazione è chiara: vaccinare il più possibile, anche con un approccio neutro rispetto al genere, fino ai 45 anni d’età.
E quando scoppia un’epidemia? La prevenzione è sempre preferibile alla gestione dell’emergenza. Ma per evitare i focolai serve ben altro: strutture sanitarie adeguate, formazione del personale, controlli regolari, dispositivi di protezione, igiene ambientale. E soprattutto, una strategia che affronti in modo serio il problema del sovraffollamento carcerario. Una sfida non semplice, ma necessaria per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu e proteggere la salute di chi vive, lavora o transita nelle carceri.