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«Per avere informazioni su mio cognato mi hanno offerto la scarcerazione e un milione di euro». Il cognato non è uno qualunque, ma si tratta del latitante di Cosa Nostra numero uno, Matteo Messina Denaro. Lui è Filippo Guttadauro, attualmente non detenuto, ma internato al 41 bis fin dal gennaio 2016 - data di fine pena per associazione di stampo mafioso - presso la “casa di lavoro” di Tolmezzo.
Il carcere, però, come riportato più volte da Il Dubbio, non ha nessuna attività lavorativa e per gli otto internati, in mancanza dello strumento di valutazione, la proroga è pressoché automatica. Per questo da settimane sono in sciopero della fame. La denuncia di Guttadauro, assistito dall’avvocato e militante dei Radicali italiani Michele Capano, è verbalizzata dall’ufficio di sorveglianza di Udine in occasione dell’udienza tenutasi il 20 marzo scorso per il riesame della misura di sicurezza dell’internamento a Tolmezzo. Davanti al magistrato di sorveglianza e al pm, Guttadauro ha chiesto la revoca dell’internamento e la possibilità di poter lavorare presso l’azienda agricola intestata alla moglie del fratello Carlo, assolto in secondo grado dalla contestazione di associazione mafiosa. Il Pmha avanzato richiesta di proroga della misura di sicurezza, accolta poi dal magistrato di sorveglianza.
Durante l’udienza Filippo Guttadauro, a una precisa domanda risponde testuali parole, riportate nel verbale del 20 marzo, presso la “casa lavoro” di Tolmezzo: «Ci sono stati diversi interrogatori investigativi, nell’anno 2014 mi è stato chiesto di collaborare con la giustizia, subito dopo l’arresto di mio figlio, una seconda richiesta è intervenuta nel gennaio- febbraio 2017 e nell’ottobre dello stesso anno da parte di due persone che si sono qualificate come ufficiali dei Carabinieri dei Ros». Fin qui emergerebbe una richiesta, fatta anche nel periodo successivo alla fine dello sconto di pena e quindi da internato, che rientra nella piena autonomia dei reparti speciali.
Poi Guttadauro prosegue: «Nei primi mesi dell’anno scorso si sono presentati un vice questore ed un agente della squadra mobile della questura di Palermo, che mi hanno offerto la scarcerazione immediata e un milione di euro, e poi sono ritornati il colonnello che era venuto da l’Aquila, un agente della Dia di Palermo e una persona che non saprei indicare, che mi hanno offerto “una montagna di soldi”. Sostanzialmente chiedevano informazioni per rintracciare mio cognato».
Come detto, il cognato è Matteo Messina Denaro, 56 anni, il latitante più ricercato d’Italia, uno degli ultimi boss di una generazione a cavallo tra la mafia stragista dei corleonesi e i nuovi business globali. Oltre un quarto di secolo di indagini, centinaia di arresti e decine di sequestri e confische non hanno messo fine alla latitanza del capomafia.
Filippo Guattadauro - da 12 anni in carcere e ora internato da tre anni a Tolmezzo -, secondo il ministero della Giustizia che gli ha prorogato da internato il 41 bis, è ritenuto ancora pericoloso perché potrebbe continuare ad intrattenere legami e rapporti con esponenti mafiosi che si trovano attualmente fuori dal circuito penitenziario. D’accordo anche il ministero dell’Interno, che ritiene Guttadauro ancora stabilmente e organicamente inserito nella struttura mafiosa con un ruolo apicale in seno alla “famiglia” di Castelvetrano, guidata dal cognato, il boss latitante Matteo Messina Denaro.
Per la difesa, invece, non c’è nessun elemento che sorregge la sua presunta capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, tali da giustificare la proroga del 41 bis, soprattutto quando a Tolmezzo, la stessa equipe ha ritenuto che Guttadauro, nel prosieguo del trattamento, possa «fruire di licenze finalizzate ad un graduale reinserimento nel conteso familiare». Il paradosso è che da internato avrebbe diritto, infatti, a beneficiare delle licenze, ma essendo nelle celle del 41 bis, non può usufruirne.
Ma ritorniamo alla dichiarazione di Guttadauro, resa davanti al magistrato di sorveglianza, circa le proposte in denaro e scarcerazione, che avrebbe ricevuto da soggetti istituzionali. Sorge un dubbio. L’internato è sottoposto a pressioni di collaborazioni di questo tipo? E se fosse così, chi consente o dispone in modo che questo avvenga?
Intanto, secondo l’avvocato Michele Capano, queste pressioni chiarirebbero anche «le ragioni di queste proroghe ' sine die' dell'internamento». Sottolinea a Il Dubbio come nel verbale «si rende rappresentazione delle visite periodiche di funzionari dello Stato - che intervengono ' motu proprio', senza essere chiamati - portatori di offerte di danaro e benefici vari, compresi provvedimenti che dovrebbero essere di competenza di magistrati».
L’avvocato e militante dei Radicali Italiani denuncia che «finché dura l'internamento, vi è la possibilità di sollecitare alla collaborazione con la giustizia come unica via per sottrarsi alla girandola altrimenti infinita ed esasperante delle proroghe, in assenza di profili di attualità della pericolosità». Capano conclude: «Vi è una drammatica convergenza della condotta del potere giudiziario e del potere esecutivo, in direzione di una condizione di ' tortura democratica' utile alla collaborazione con la giustizia, alla ' confessione', come fu in un tempo che ci si augurava non ritornasse» . Il caso emblematico dell’internato è stato segnalato anche al collegio del Garante Nazionale delle persone private della libertà, che ha affrontato spesso la criticità riguardante gli internati e in particolar modo proprio quelli di Tolmezzo.