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magistrato laurea
Non per tutti i magistrati il diritto alla privacy vale allo stesso modo. A sostenerlo è l’avvocato Giancarlo Murolo, del foro di Reggio Calabria, alle prese con la decisione della procura generale della Cassazione - confermata dal Tar del Lazio - di non rendere noto l’esito di un procedimento disciplinare a carico di quattro magistrati reggini per ragioni di riservatezza. Una decisione importantissima, per il legale, dal momento che la stessa potrebbe essere utile a stabilire la nullità della sentenza di condanna a carico di un suo assistito, Rocco Ripepi, coinvolto nell’operazione antimafia “Gambling”. Processo che ora pende davanti alla Cassazione e la cui udienza è prevista per il 4 aprile. Ma all’appuntamento la difesa sarà costretta probabilmente ad arrivare senza un documento fondamentale, quello che potrebbe provare la necessità di azzerare il lavoro dei giudici di merito. La vicenda affonda le sue radici nel 2019, quando Ripepi, in attesa della decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria, vede entrare in camera di consiglio un magistrato estraneo al collegio giudicante, ma anzi impegnato in precedenza come giudice del Riesame nel definire la posizione cautelare di un coimputato. Una “visita” durata circa un’ora e mezza, con la conseguente «violazione della segretezza della camera di consiglio», denuncia Murolo. «Il collegio - si legge nel ricorso al Consiglio di Stato - alle ore 12.30 circa» si era «ritirato in camera di consiglio, avvertendo che intorno alle 19 circa si sarebbe data lettura del dispositivo. Alle ore 19.45 circa, i ricorrenti con altri coimputati ed i loro familiari, in attesa dentro e fuori la sede della locale Corte d’Appello, hanno notato l’ingresso» di un giudice del Riesame, «il quale raggiungeva la stanza ove il collegio stava deliberando la sentenza. Questi si allontanava dalla predetta stanza intorno alle ore 21,10 circa, quindi dopo quasi un’ora e mezza di permanenza in camera di consiglio. Il Ripepi, pertanto, notando tale straordinaria circostanza, portava a conoscenza del Presidente della Corte d’Appello tali fatti, chiedendo che venisse accertata la causa della presenza indebita del quarto giudice». Da qui un esposto disciplinare, in seguito al quale Murolo non è riuscito più ad avere informazioni, se non che lo stesso esposto è arrivato sulla scrivania di Palazzo dei Marescialli e che il procedimento è stato definito. Impossibile, però, sapere come: nessuna informazione, a parte questa, è stata ritenuta ostensibile da parte della procura generale. Da qui la richiesta di accesso agli atti, avanzata a marzo dello scorso anno, respinta dalla procura generale e dal Tar, che ha condiviso l’assunto secondo cui «gli atti del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari non sono atti amministrativi», bensì «giurisdizionali», per accedere ai quali è necessario procedere in sede civile contro i magistrati. Un controsenso, dal momento che quegli atti servono alla difesa per contestare la sentenza davanti al giudice di legittimità, mentre per qualsiasi azione civile il processo dovrebbe essersi già concluso. Ripepi, infatti, «ha interesse ad ottenere gli atti richiesti per tutelare la propria posizione processuale, nell’ambito del processo, ancora pendente - spiega Murolo -. Lo stesso lo potrà fare solo esibendo tali atti, non essendo in grado di poter ottenere aliter alcuna prova confortante l’eccepita nullità della sentenza d’appello, conseguente la violazione del dovere di segretezza della camera di consiglio». L’errore, secondo il legale, starebbe nel considerare la decisione disciplinare come un atto giurisdizionale. Da nessuna parte, infatti, «si attribuisce al procedimento disciplinare la qualifica di “giurisdizionale”», se non nel generico riferimento all’osservanza delle regole del codice di procedura penale per l’attività di indagine. Ma ciò non basta, contesta il legale: «Rimane pur sempre nell’alveo degli atti amministrativi, atti, quindi, accessibili a chiunque abbia un interesse qualificato». Secondo Murolo, nulla, nel procedimento disciplinare, è assimilabile ad un vero e proprio processo, non solo per via della composizione mista dei “giudici”, ma anche perché a poter promuovere l’azione disciplinare è anche il ministero della Giustizia, che tutto è fuorché un membro della giurisdizione. E se così fosse, in ogni caso, la Costituzione dovrebbe attribuire al Csm il ruolo di “giudice speciale”, cosa che invece non fa. «Il rifiuto da parte della procura generale, pertanto, è da ritenersi ingiustificato, tenuto conto che il diritto alla riservatezza deve cedere il passo al superiore diritto alla difesa del denunciante, anche in virtù del principio del giusto processo», prosegue il legale. Che non manca di evidenziare le differenze con il caso Palamara: «La tanto decantata riservatezza e la ostinata affermazione di principio della "non ostensibilità" delle decisioni del Consiglio superiore della magistratura sui procedimenti disciplinari a carico di magistrati» sono state «allegramente messe da parte in occasione della vicenda del dottor Luca Palamara. Probabilmente, al fine di rendere pubblica la rigidità dei giudizi e delle determinazioni (adottate solo in questo caso, viste le notorie statistiche circa la scarsità delle punizioni inflitte ai magistrati) prese per tutti coloro che hanno spalleggiato Palamara, il Consiglio superiore della magistratura ha reso pubbliche le sanzioni disciplinari, consentendo a tutta la stampa nazionale e alle reti televisive, nessuna esclusa, di pubblicare, di informare l'intera collettività e di diffondere, senza alcuna remora sul tanto celebrato diritto alla riservatezza, i nomi dei soggetti destinatari e persino l'entità delle predette sanzioni». Come è possibile, si chiede dunque il legale, «che la non ostensibilità degli atti disciplinari dei procedimenti a carico dei suddetti magistrati sia venuta meno?». A dire chi ha ragione, ora, sarà Palazzo Spada, che dovrà pronunciarsi il 10 marzo.