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ALESSANDRO PARROTTA*
L’ emergenza sanitaria legata al diffondersi sul territorio nazionale ed europeo del Covid- 19 ha avuto ripercussioni anche sul sistema giudiziario. Tra le misure introdotte dall’Esecutivo ce ne sono alcune capaci di produrre un impatto incisivo sulla regolare prosecuzione dei processi, soprattutto quelli penali, in relazione ai quali si sono dovute bilanciare da un lato l’esigenza e il diritto costituzionalmente garantito delle persone coinvolte in qualità di indagato o imputato – che possono quindi anche essere detenute in carcere – a presenziare alle udienze, e dall’altro la necessità di evitare una maggior diffusione del Covid- 19.
Tra le diverse disposizioni, il governo ha previsto, per i procedimenti penali, alcune eccezioni alla regola del rinvio ex officio: non sono rinviate le udienze di convalida dell’arresto o del fermo, quelle relative a procedimenti nei quali è stata adottata una misura cautelare e quelle in occorrenza delle quali siano le stesse parti – il detenuto o il suo difensore – a richiedere la trattazione. La ratio è proprio quella di evitare che un soggetto – detenuto in misura cautelare, quindi non definitiva – trascorra ulteriore tempo in carcere senza alcun giudizio, ancorché non definitivo, di un Giudice diverso da quello che ne ha disposto la reclusione.
Dunque, queste udienze si terranno. Tuttavia, sulla base di ciò si è posto il problema di garantire al detenuto la presenza in udienza. La soluzione consiste nella partecipazione in videoconferenza per i detenuti: in particolare, l’art. 2, c. 7 del D. L. dispone che la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto.
Un’ipotesi del genere esisteva già nel nostro ordinamento: l’articolo summenzionato si riporta infatti alla normativa dell’art. 146 bis delle disp. Att. C. p. p.. Tuttavia, la grande criticità da porre necessariamente in rilievo risiede nella circostanza per la quale il ricorso allo strumento audiovisivo previsto dalla normativa richiamata era stato pensato, in epoca immediatamente successiva alle stragi di mafia di via d’Amelio e Capaci, esclusivamente per evitare che gli imputati detenuti e appartenenti a organizzazioni mafiose potessero influenzare le dinamiche processuali, inquinando la serenità dei soggetti chiamati a vario titolo a partecipare ai vari procedimenti penali. L’uso della tecnologia era, dunque, strumentale a evitare tentativi di condizionamento. I motivi di allora e attuali che hanno portato alla medesima soluzione sono, insomma, molto diversi. L’art. 146 bis disp. Att. C. p. p., rubricato “partecipazione al dibattimento a distanza” e modificato dalla cosiddetta riforma Orlando del 2017, attualmente prescrive la necessaria partecipazione a distanza per i detenuti imputati per taluni delitti, tra cui proprio l’associazione a delinquere. L’art. 77 della riforma Orlando ha cioè eliminato la presenza di ulteriori requisiti per disporre la videoconferenza, che diventa un automatismo per i delitti indicati. Una siffatta impostazione ha prodotto alcune rilevanti criticità in ordine al rispetto delle garanzie sul contraddittorio. Alla luce di quanto detto, il ricorso a strumenti audiovisivi disposto invece, dal decreto 11 dell’ 8 marzo, per tutti i detenuti comporterà un’evidente lesione dei principi costituzionali del giusto processo e in materia di contraddittorio, anche perché manca una distinzione per tipologia di delitti, come previsto invece dalla normativa preesistente.
* avvocato, direttore Ispeg