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È utile, per amore della verità, chiarire alcune ricostruzioni in merito alla vicenda della Trattativa Stato mafia, perché ci sono circostanze oggettivamente non vere ma che vengono diffuse in questi giorni, compresa l’occasione del dibattito di giovedì sera su Rai due, dopo il film di Sabina Guzzanti.
Primo punto. Non è vero che Liliana Ferraro, l'ex vicedirettore degli affari penali del ministero della Giustizia, disse a Giuseppe De Donno, che lui doveva riferire a Paolo Borsellino della sua volontà di agganciarsi con Vito Ciancimino. La verità è che disse che ci avrebbe pensato lei, e così avvenne. Ma per capire meglio bisogna leggere gli atti.
Nell’aprile del 2014, al processo per la strage di via D'Amelio, la Ferraro ha deposto, ripercorrendo la sua carriera e in particolare la sua esperienza al ministero accanto a Giovanni Falcone. Successivamente, sempre nel corso della testimonianza, si è soffermata sull’incontro avuto con il capitano Giuseppe De Donno al ministero e ha precisato che l'ufficiale del Ros, costernato per l'assassinio del giudice Falcone e desideroso di fare qualcosa per individuare e catturare i responsabili, le aveva parlato di Massimo Ciancimino e della possibilità, per suo tramite, di contattarne il padre, Vito, per convincerlo a collaborare.
Quindi, la Ferraro, sempre in testimonianza e davanti allo stesso giudice, ha aggiunto che De Donno le disse di avere più o meno già “agganciato” Vito Ciancimino e di volerne informare il ministro della Giustizia, Claudio Martelli. Cosa rispose a De Donno la Ferraro? Rispose che sarebbe stato meglio che lui ne avesse riferito all’autorità giudiziaria, mentre lei avrebbe provveduto a dirlo a Paolo Borsellino.
Per capire ancora meglio, bisogna sentire cose lei disse innanzi alla Commissione Antimafia del 16 febbraio del 2011. «Il capitano De Donno – ha raccontato la Ferraro - venne a trovarmi per dirmi quello che mi dicevano tutti gli ufficiali di Polizia e dei Carabinieri ( sia quelli che conoscevo, sia quelli che non mi conoscevano ma che avevano conosciuto il dottor Falcone), e cioè che erano pronti a fare la loro parte per catturare gli assassini di Falcone. Per questo motivo il capitano De Donno mi parlò della necessità di capire, di scoprire chi era stato. Mi ricordò la sua strettissima amicizia, ma anche l’affetto che lo univa a Giovanni Falcone. La prima volta, li avevo incontrati sull’aereo andando a Palermo e avevo visto che avevano un rapporto molto confidenziale».
Poi l’allora capitano De Donno le disse anche che, andando a Palermo, aveva rivisto Massimo Ciancimino e gli era venuta l’idea di contattarlo, perché poteva darsi che il padre, essendo già stato colpito da una sentenza definitiva, fosse disponibile ad una collaborazione.
Cos’altro le disse De Donno? «Sosteneva - ha spiegato sempre la Ferraro - che Vito Ciancimino aveva una statura politica così forte che forse, per appoggiare il loro tentativo di contattarlo attraverso Massimo Ciancimino, era opportuno che io avvertissi anche il ministro».
Lei quindi rispose che l’avrebbe riferito all’allora ministro Martelli e ne avrebbe parlato con Borsellino. Così, infatti, avvenne. La Ferraro e Borsellino si sono incontrati il 28 giugno del 92 all’aeroporto di Fiumicino e, dopo avergliene parlato, Borsellino rispose con tranquillità e senza alcuna aria di sorpresa «ci penso io» o «me ne occupo io».
I due poi proseguirono il discorso e parlarono del famoso dossier “mafia- appalti”, che era stato consegnato alla Procura di Palermo dal Ros e che già, come aveva spiegato la Ferraro, era «oggetto di particolare attenzione da parte di Falcone». Ha anche aggiunto sempre in testimonianza la stessa Ferraro: «Il rapporto venne consegnato anche a me, ma mi limitai solo a sfogliarlo, perché ricevetti una telefonata da Giovanni ( Falcone, ndr), il quale mi pregò di chiuderlo e mi invitò a scrivere due lettere, una per il Csm e l’altra alla Procura di Palermo. Poi mi disse: «Questi qui cosa vogliono ottenere?». Non era chiaro perché il dossier di un’indagine fosse stato spedito al ministero, ma ciò è avvenuto.
L’altra vicenda che ogni tanto rispunta, come è accaduto al dibattito di ieri su Rai due, è la lettera considerata “sedicente” dei familiari dei detenuti reclusi a Pianosa e risalente al febbraio del 1993 e rivolta non solo all’attenzione dell’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, ma a tutte le varie personalità politiche, compreso il Papa. No, non era sedicente e non conteneva nessun messaggio oscuro.
Si denunciavano le condizioni di detenzione a Pianosa, dove non mancavano torture come denunciato ancora oggi da tanti ergastolani che vi finirono. Recentemente anche il falso pentito Vincenzo Scarantino ha raccontato del trattamento inumano che dovette subire. Il carcere di Pianosa, ricordiamo, era stato denunciato anche da Amnesty International. Pianosa è stata chiusa nel 1998 per motivi ovvi. Venne già chiusa durante la stagione del terrorismo perché parliamo di una struttura già fatiscente, dove i detenuti erano sottoposti a condizioni ritenute disumane da numerose organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali. Il carcere di Pianosa (così come quello dell’Asinara) fu riaperto per emergenza dopo la strage di Capaci e vi furono trasferiti in massa i detenuti mafiosi, nel giro di una sola notte, come misura di immediata rappresaglia alla strage.
Poi c’è la solita storia del 41 bis, dove, ancora una volta, si mette in cattiva luce l’azione dello scomparso ex ministro Giovanni Conso, fine giurista, prestato alla politica. Le revoche dei 41 bis ai circa 300 detenuti (in minima parte mafiosi, ma comunque di serie b) disposte dal ministro Conso nel ’ 93, furono conseguenza di una sentenza della Corte Costituzionale ( a numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993), che impose l’elaborazione di valutazioni individuali a motivazione di ciascun provvedimento che applicasse il carcere duro, a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi. Conso – come già lui stesso disse durante il processo sulla strage di Firenze – non fece altro che attenersi all’indicazione dei giudici della Consulta.