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Quarta Repubblica, programma televisivo condotto da Nicola Porro, si è discusso del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. È stato intervistato il generale Mario Mori che, giustamente, non è entrato nel merito della sentenza, anche per rispetto della Corte d’Appello di Palermo che deve ancora scrivere e depositare le motivazioni.
Mario Mori ha parlato del dossier mafia-appalti
L’ex Ros ha parlato, però, della sua attività antimafia, assieme all’allora capitano Giuseppe De Donno, condotta al fianco di Giovanni Falcone. Ha ricordato la famosa indagine su mafia-appalti, la prima indagine - all’epoca innovativa - che scoperchiò profondi legami tra imprese (comprese quelle nazionali che furono anche quotate in borsa), politica e mafia. Ne scaturì un dossier che provocò enormi guai, compresi attriti e sospetti all’interno della procura di Palermo. Indagine che, secondo diverse sentenze definitive, sono state la concausa della strage di Capaci e di Via D’Amelio. Ma il dibattito tra i vari ospiti di
Quarta Repubblica è stato caotico. Un telespettatore a digiuno della materia avrà probabilmente trovato difficoltà a
comprendere. A rimettere tutto sui giusti binari è stata l’ospite fissa del programma. Parliamo di suor Monia Alfieri, che è anche una giurista e di evidente elevato spessore culturale. Sicuramente di area conservatrice, ma con un’ampia visione e sensibilità che, rispetto a presunti uomini di sinistra, appare come una strenua libertaria.
I complottisti di casa nostra simili ai "Quanon" americani
Un intervento che per i cultori della materia non può non aver emozionato, ma che può aver irritato alcuni togati, quelli sì di potere, che però si spacciano come corpi estranei di un sistema oppressivo, illiberale, che ha la capacità di processare non solo la Storia, ma addirittura di riscriverla adeguandola a folli tesi che ricordano molto i deliri dei “Quanon” americani. Quelli, per intenderci, che vestiti da unni hanno assaltato il campidoglio americano. Non sono dissimili, perché entrambi credono alla teoria del complotto ordito da una supercupola composta da non meglio identificate entità. Che possano esistere persone, singole, colluse che appartengono alle forze dell’ordine, servizi segreti, alla politica e alla magistratura stessa, è lapalissiano. Infatti, di solito, ma non sempre, vengono beccati e arrestati. Ad esempio, lo stesso ex Ros Mario Mori condusse le indagini contro il direttore dei servizi segreti per la vicenda dei fondi neri dell’allora Sisde. Questa è la verità dei fatti, persino banale e quindi noiosa.
Totò Riina faceva rivendicare gli attentati e omicidi politici alla “Falange armata”
La teoria del complotto, d’altronde, è stata una forma di depistaggio ordita dalla stessa mafia corleonese. Diamo una notizia: Totò Riina stesso faceva rivendicare gli attentati e omicidi politici con le sigle della fantomatica “Falange armata”. Fu lui a voler far indirizzare le indagini degli attentati verso i servizi segreti. Lo stesso Riina, astutamente, durante il processo di Firenze sulle stragi, prese parola e disse di guardare i servizi segreti, perché lui era innocente. Salvo poi smentirsi, perché quando fu intercettato durante i colloqui con il suo compagno d’aria al 41 bis, ammise per la prima volta di essere lui l’autore delle stragi puntualizzando che la vicenda dei servizi erano tutte fandonie. Ma a chi importa? Bisogna portare avanti tesi come il deep state e altre sciocchezze che gli stessi giudici Falcone e Borsellino stigmatizzavano. Potrebbe far pure sorridere, ma la questione diventa seria. A differenza dei seguaci del “Quanon” che hanno assaltato il campidoglio americano, qui parliamo di tesi giudiziarie che devastano vite umane. Magari proprio quelle che la mafia l’hanno combattuta seriamente, toccando le questioni concrete, materiali. Così hanno agito i Ros, così agirono Falcone e Borsellino pagandola cara con la vita, così agiscono tuttora magistrati che nessuno conosce, perché non sono mediatici, non possono raccontare storie fantasiose, intriganti. Non sono, in pratica, adatte per il mercato.
C'è differenza tra inchieste giornalistiche e la pubblicazione delle tesi dei pm
Si distorce la realtà e si mette al pubblico ludibrio le persone. Non c’è inchiesta giornalistica in realtà. Tranne qualche rara eccezione (con orgoglio
Il Dubbio fa parte di questa minoranza), la maggior parte dei giornalisti sposano completamente la tesi dell’accusa. In questa maniera non bisogna nemmeno faticare, perché i pm hanno tutte le carte a disposizione. Basta creare un legame con quest’ultimi e il gioco è fatto: si anticipano le loro carte e si fa lo scoop. Il risultato, basti pensare al processo trattativa, è che non apportano nessuna conoscenza, ma solo suggestioni. Così accade che solo noi de
Il Dubbio ci accorgiamo degli svarioni dei pg durante il processo d’appello, costretti così a rettificare. Accade che troviamo documenti inediti, non farlocchi. Accade che riusciamo a far desecretare dal presidente della commissione Antimafia Nicola Morra un documento relativo a Falcone che era stato dimenticato nel cassetto. In sostanza, si prova a fare del giornalismo di inchiesta che non si riduce al copia incolla degli atti firmati dai pm. Ma soprattutto, dopo aver studiato, ci siamo convinti dell’innocenza degli imputati al processo trattativa. Si tratta di compiere il lavoro primario del giornalista: non cane da guardia del potere politico, finanziario o giudiziario, ma cane da guardia della democrazia.
Suor Monia Alfieri: «Giusto dare informazione, ma tenendo presente che di gogna mediatica, la gente si uccide»
Ed ecco che arrivano le parole di suor Monia Alfieri che nel programma
Quarta Repubblica, mette tutti in riga. «Mentre sentivo parlare gli ospiti, ho provato un senso di forte smarrimento e di profonda paura. C’è un giustizialismo esasperato, una attività mediatica che diventa gogna e che tratta le persone come birilli e che distrugge le vite per sempre. Chi le riabiliterà?», ha esordito suor Monia. «La libertà di espressione – ha sottolineato - deve essere un dovere prima ancora che un diritto. Giusto dare informazione, ma tenendo presente che di gogna mediatica, la gente si uccide». Poi è entrata nel merito della sentenza trattativa Stato-mafia. «Anche io sono curiosa di leggere le motivazioni di questa sentenza, ma a mio avviso resta una sentenza storica per alcuni principi ineludibili. Questa sentenza dice sì, che i Ros hanno trattato con una fonte vicino alla mafia, ma dice anche che non costituisce reato». Suor Monia si riferisce al contatto che i Ros ebbero con Vito Ciancimino. Contatto mai negato o tenuto nascosto. Un contatto, un dialogo volto alla cattura dei latitanti. Una trattativa che non c’entra nulla con la tesi giudiziaria portata avanti dalla pubblica accusa. Lei stessa ha ricordato: «Pensiamo al rapporto tra Falcone e il mafioso Buscetta». Poi la suora ha puntualizzato: «Anche il politico, in quanto parlamentare, non può disdegnare di dialogare con nessuno, nemmeno con il peggior delinquente. Il discrimine qual è? Se io sono connivente con i mafiosi o concorro con loro, quello sì che è un reato». E ha aggiunto: «Il processo penale non può riscrivere la storia e nemmeno orientare la politica. Questo lo dico soprattutto da giurista».
Suor Monia ha citato Fiammetta Borsellino
Suor Monia Alfieri, dopo aver ripreso il giornalista de
Il Fatto che era tra gli ospiti, perché inspiegabilmente sorrideva mentre lei parlava di questioni serissime, ha concluso ricordando le parole di Fiammetta Borsellino: «Le sue dichiarazioni sono struggenti. Dice che si è perso tanto tempo, sciupandolo, cercando presunte connivenze, quando invece bisognava andare ad approfondire quello che denunciava il padre, ovvero che all’interno della Procura di Palermo qualcuno lo aveva ingannato». Chiuso il sipario. Nessuno, a parte rarissime eccezioni, in tv ha avuto il coraggio di evidenziare il marcio di un intero sistema, protetto da una macchina da guerra mediatica. Fatta da presunti giornalisti di inchiesta che hanno il vantaggio di dire ciò che vogliono, approfittando dell’inevitabile ignoranza sull’argomento da parte dei cittadini rimbambiti dalla propaganda stessa. Così come per la questione disastrosa delle carceri, anche per decostruire il vile teorema trattativa Stato-mafia, sono rimasti solo i radicali, preti e suore.