Lo ha sottolineato anche Franco Gabrielli: «Il solito approccio panpenalista è un approccio sbagliato». In un recente intervento sul Foglio, l’ex capo della Polizia ed ex direttore dell’AISI, sollecitato da Carmelo Caruso, non si è trattenuto: «L’idea che “tutti in carcere e buttiamo via le chiavi” è una frase a effetto, di colore, per non rispondere alla vera domanda: perché siamo vulnerabili?».

Dunque, altro che “pene più severe”, come incoraggia Giorgia Meloni per risolvere la questione cybersicurezza, evitare i dossieraggi e contrastare gli spioni. Non serve l’inasprimento delle sanzioni, «che è solo fumo negli occhi», ma un intervento di rinnovamento delle infrastrutture pubbliche digitali, una strategia ben più ampia, faticosa e risolutiva, a lungo termine.

Ecco, una proposta che, in altre parole, non somiglia affatto al diritto penale: arma spuntata e di facile consumo, tarata sull’intervento fuori tempo massimo, quando è troppo tardi per offrire un’alternativa a ciò che è successo.

Eppure, ogniqualvolta l’attualità spinga e chiami in gioco la politica, il Governo, con riflesso pavloviano, mette in scena un intervento simbolico e punitivo. Così, una storia che quantomeno mette a nudo lo stato di salute delle nostre infrastrutture e le sue fragilità, sfuma nella spy story di bassa lega sull’intreccio di “eversione, complotto e teorie più fantasmagoriche” (per utilizzare sempre le parole di Gabrielli, questa volta sulle pagine di Repubblica). Fumo negli occhi, si diceva.

A far riflettere, poi, è che considerazioni del genere giungano da chi, per una vita, ha diretto ai più alti livelli alcuni degli snodi centrali della pubblica sicurezza del nostro Paese, e non dalle solite voci più sensibili al tema ( si pensi a certa Accademia, all’U. C. P. I., ad Antigone, a Nessuno Tocchi Caino o a un’altra delle rare realtà che studiano, praticano e vivono il diritto penale). Chissà se basterà per insinuare anche un solo dubbio tra i giustizialisti più fanatici (ecco, speriamo che non si tratti di una velleità da garantisti) sul fatto che l’equazione non vale: all’inflazione penalistica non corrisponde un aumento della sicurezza.

A far allarmare, in più, è che l’atteggiamento dell’esecutivo sia il solito, dall’insediamento ad oggi: quello panpenalista, per l’appunto. L’opposto, peraltro, di quanto dichiarato dal Ministro Nordio due anni fa, quando parlava come dottor Jekyll e, nel vetro di qualche locale di un palazzo in via Arenula, non si era ancora specchiato in Mr. Hyde.

Per inquadrare il dualismo del già procuratore aggiunto della Procura di Venezia, si noti che perfino la Treccani, alla voce panpenalismo, si avvale ancora delle parole (risalenti) dello stesso Guardasigilli, secondo cui “le pene non devono essere aumentate, semmai diminuite”. Eppure, soltanto con l’abolizione dell’abuso di ufficio e la riformulazione restrittiva del delitto di traffico d’influenze illecite si è invertito (per un brevissimo e isolato lampo) il trend della penalità al rialzo. E il resto?

Quasi cinquanta nuove fattispecie di reato. Basterebbe nominare un qualsiasi fatto di cronaca degli ultimi tempi per accorgersi che il Governo ha reagito su misura, in maniera sartoriale, con un reato, una circostanza aggravante, l’inasprimento di una cornice edittale o perfino qualche ostatività, ricorrendo ossessivamente alla decretazione d’urgenza.

Il diktat dell’ultima legislatura, allora, è ormai chiaro: il diritto penale è, per la politica, filtro e soluzione alla realtà. In altre parole, un habitus mentale, che per certi versi nella memoria rinvia all’esperienza giallo- verde del primo Conte.

Risalendo la cronaca pertanto, dicevamo, sarà facile trovarvi un corrispondente normativo di matrice penale: il decreto “anti-rave” (varato dopo poco più di una settimana dal giuramento del Governo) appare oggi come il terribile presagio della linea proseguita con il decreto Caivano (soprattutto in materia di penale minorile), consolidata dal decreto Cutro ( si pensi al cd. reato per gli scafisti), avallata da ldecreto Carcere sicuro o, peggio ancora, svuota carceri (di estrema gravità per ciò che non conteneva, cioè nessuna misura “urgente” rispetto la vera urgenza delle carceri sovraffollate e disumane) e ora culminata con l’ultimo pacchetto sicurezza, ossia un agglomerato di paranoie repressive, scelte propagandistiche e manifesti ideologici (tra tutti, il blocco stradale o ferroviario mediante ostruzione con il corpo, la criminalizzazione delle condotte accessorie al consumo della cannabis light, il delitto di rivolta negli istituti penitenziari, anche nelle modalità passive).

Al giro di boa di metà mandato, il carcere ( sempre più affollato e scenario di un numero crescente di suicidi) sembra essere fuori da ogni schema o slancio riformatore migliorativo, l’ordinamento penale straborda più di prima e il rapporto sgangherato dell’esecutivo con la magistratura rischia di fare il gioco di chi vuole gettare un pregiudizio su una delle poche proposte meritevoli avanzate dalla maggioranza: la riforma costituzionale della separazione delle carriere, che molto ha a che vedere con il principio del giusto processo e nulla, invece, con lo scontro tra poteri.

Ma sono duri i tempi per il garantismo se, davanti a tanto panpenalismo, l’ala più liberale della maggioranza è inerte e nemmeno un meccanismo di pura reazione all’interno del gioco delle parti democratico sia capace di suscitare, nell’opposizione, la riflessione su una proposta politica unita e alternativa, che metta al bando l’utilizzo propagandistico del diritto penale, fuori dal sistema delle opportunità e finalmente sul piano della necessità.

Davanti ad una politica che, per ragioni di profitto elettorale, è sempre più sorda alle esigenze costituzionali – si sa, introdurre nuovi reati non pesa (almeno nell’immediato) sulla legge di bilancio ed è assai remunerativo mediaticamente –, bisogna aumentare la domanda sociale di garantismo. Solo così, in una prospettiva a lungo termine, potrà essere messa al centro dell’agenda del Paese. Per ora, come si diceva, sono duri i tempi per il garantismo.