Era appena 22enne con pochi anni da scontare nel carcere di Monza, un residuo pena per reati legati alla sua tossicodipendenza, quando è morto. Era in perenne stato di agitazione e compiva gesti di autolesionismo per via dell’astinenza e per questo i medici stessi avevano chiesto che fosse sorvegliato a vista. Ma le misure, a quanto pare, non sarebbero state attuate e l’hanno ritrovato morto, durante l’ora di socialità, in una cella non sua. È accaduto nel 2013, i familiari hanno fatto denuncia per omicidio colposo, ma dopo due anni la magistratura ha archiviato. Ora però, grazie all’aiuto degli avvocati Daniel Monni e Alessandro Ravani, hanno presentato una denuncia presso la procura di Monza integrandola con il reato di condotta omissiva visto che la sorveglianza risultava assente. Ma cosa hanno scoperto i legali? Tramite i diari clinici hanno potuto ricostruire gli eventi accaduti negli ultimi 37 giorni di Francesco Smeragliuolo, così si chiamava il ragazzo. Appena entrato in carcere, il 2 maggio del 2013, presenta già brividi, mialgie diffuse, insonnia. Qualche giorno dopo, i medici hanno riscontrato che il ragazzo presenta una «sintomatologia astinenziale» e ha dichiarato di «rifiutare di assumere il metadone consapevole di stare male per astinenza contro il pare del medico». A quel punto al giovane detenuto hanno cominciato a somministrargli psicofarmaci. Inizialmente le gocce di Valium. Ma nulla fare. L’insonnia persiste, aumenta la sua agitazione e il 19 maggio, secondo quanto si legge nella cartella clinica, i medici stessi chiedono nei suoi confronti una «grande sorveglianza». A mezzanotte e mezza Francesco riferisce «ansia non controllata e di avere paure e fobie che riconosce immotivate ma che non sa spiegarsi». In quella sede i medici ribadiscono la necessità di una «grande sorveglianza fino a visita psichiatrica». Nel corso della visita al Sert, il 20 maggio 2013, il ragazzo parla di sensazioni di «nodo alla gola e allo stomaco, inefficacia della terapia; insonnia, formicolio alle estremità, incubi e atti autolesivi potenziali». Ma non solo. Alla psicologa riferisce «con atteggiamento captativo malesseri fisici vaghi ed imprecisati (alle estremità degli arti superiori, disturbi gastrici, senso di costrizione alla gola e insonnia) sostenendo che durante la notte si presentano idee di morte intrusive». Sussiste, in sostanza, «preoccupazione per il proprio stato di salute».
"Le ferite e la fine dell'isolamento"
Ogni giorno che passa, è un crescendo. Ancora insonnia resistente ai farmaci, nodi alla gola, altri disturbi fino ad arrivare al 28 maggio quando, secondo quanto risulta dal diario clinico, Francesco presenta «diverse ferite lineari in regione latero cervicale destra del collo di cui una più profonda che necessita di due punti di sutura». Dice di «aver fatto questo perché non ce la faceva più» e di «aver agito in un momento di sconforto». I medici a quel punto richiedono una «ubicazione in cella priva di suppellettili e grandissima sorveglianza fino a visita psichiatrica che si richiede con precedenza». Il 31 maggio l’equipe medica concorda per la fine dell’isolamento e quindi il rientro in sezione nella vita comune, ma – sottolineando ancora una volta – sempre con il «regime di grande sorveglianza a scopo precauzionale».
"Francesco era a rischio e andava controllato"
Il dato che emerge è chiaro. Francesco, in forte crisi di tossicodipendenza e imbottito di psicofarmaci come rivelerà l’analisi del sangue, è a rischio. Per questo i medici hanno chiesto che fosse sorvegliato a vista per tutelare la sua incolumità fisica. Però arriviamo all’otto giugno del 2013 quando il ragazzo all’improvviso muore, in una cella non sua. L’altro detenuto che era con lui racconta che improvvisamente Francesco si è accasciato a terra e non ha risposto più ai richiami e lui, quindi, ha provveduto a distenderlo sul letto. A quel punto ha urlato chiedendo aiuto. Il ragazzo si è accasciato intorno alle 17, i soccorsi arrivano alle 18. Non c’è stato nulla da fare, Francesco era già morto.La denuncia presentata in procura è chiara. Il ragazzo era un soggetto ad alto rischio e per tale ragione doveva essere sottoposto a sorveglianza a vista. Così, purtroppo, non è stato. La madre testimonia che, all’ultimo colloquio, Francesco risultava notevolmente dimagrito rispetto a quando ha fatto ingresso in carcere. La salma è risultata piena di escoriazioni e lo screening biologico ha evidenziato la presenza di diversi psicofarmaci. Ricordiamo che recentemente la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per il suicidio di un detenuto avvenuto 19 anni fa. Il motivo della condanna? Le autorità non hanno garantito il “diritto alla vita” che obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Tale obbligo sussiste, ancora di più, dal momento in cui le Autorità penitenziarie siano a conoscenza di un rischio reale. Nel caso di Francesco Smeragliuolo, gli stessi medici del carcere hanno chiesto una “grande sorveglianza” nei suoi confronti.