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Marco Cappato e Mina Welby non sono colpevoli per aver aiutato Davide Trentini a morire. Lo ha stabilito questa sera la Corte d’Assise di Massa Carrara, che ha accolto le richieste della difesa assolvendo i due imputati, perché «il fatto non sussiste», dall'accusa di aiuto al suicidio per la morte del 53enne malato di Sla deceduto il 13 luglio 2017 in una clinica Svizzera. I due sono stati accolti da un applauso davanti al Tribunale, dove Welby ha ricordato che la sua battaglia per una legge sul fine vita, anche in virtù della promessa fatta a suo marito Piergiorgio poco prima della sua morte, non si ferma. «Oggi sono molto felice. Ricordo quando quel 20 dicembre del 2006 prima di morire Piergiorgio mi disse: promettimi che andrai avanti e che non ti fermerai. E oggi posso dirgli che sono andata avanti e che non mi fermerò mai. Dobbiamo ancora ottenere la legge e nel frattempo sarò pronta ad accompagnare in Svizzera tutte quelle persone che me lo chiederanno e che si rivolgeranno a noi. Sarò ancora una disobbediente», ha detto tra gli applausi dei manifestanti. E così ha fatto anche Cappato, che ha parlato di «un precedente importante che allarga il margine di applicazione della sentenza della Corte costituzionale anche a coloro che non sono attaccati alle macchine». La differenza tra il caso di dj Fabo e quella di Trentini, infatti, stava tutta qui: il 53enne non era costretto a subire trattamento di sostegno vitale. Ma il problema, ha evidenziato il Radicale, rimane: «per avere giustizia tocca continuare a passare per i tribunali e i comitati etici o comunque attraverso procedure che per molti malati non sono percorribili, perché non ci sono i tempi e le garanzie. E questi può fornirli solo il Parlamento, che non solo da 7 anni non risponde alla sollecitazione di una legge di iniziativa popolare, ma anche a due sollecitazioni della Consulta». Una legge che servirebbe a garantire «un diritto immediatamente accessibile a tutti i cittadini» e anche ad eliminare una potenziale discriminazione, ha evidenziato ancora: «la situazione di Davide era equiparabile a quella di Fabiano, ma se non lo fosse stato avremmo potuto accettare una discriminazione sulla base della tecnica che lo ha tenuto in vita e non sulla base della sua volontà? Per questo continueremo la nostra azione di disobbedienza civile, fino a quando il Parlamento non si sarà assunto la responsabilità che non si è ancora assunto». I giudici hanno assolto Welby e Cappato perché il fatto non sussiste riguardo all’istigazione al suicidio e perché il fatto non costituisce reato riguardo all’aiuto al suicidio. Il pubblico ministero Marco Mansi non si era spinto a chiedere l’assoluzione, ma aveva comunque evidenziato le motivazioni alla base della scelta di Welby e Cappato di aiutare Trentini: porre fine alle sue sofferenze. Una scelta che «rifarei per aiutare Davide a morire senza soffrire», aveva spiegato Cappato poco dopo la requisitoria con la quale Mansi aveva aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi, il minimo della pena. Perché sebbene, per il magistrato, il reato sussista, «credo ai loro nobili intenti». Gli stessi alla base dell’aiuto concesso a dj Fabo, per il quale, a dicembre scorso, il tribunale di Milano ha assolto l’esponente Radicale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, sottolineando che la sua condotta «esclude» il reato di «agevolazione al suicidio». Quella sentenza arrivò dopo l’intervento della Consulta, che ridusse l’area di punibilità per quanto previsto all’articolo 580 del codice penale, stabilendo come paletti la presenza di una patologia irreversibile, la volontà del soggetto espressa in modo «chiaro e univoco», indice di una capacità di prendere decisioni libere e consapevoli, e che al paziente venga «prospettata la possibilità di porre fine alla propria vita mediante la sedazione profonda e l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale». Condizioni che nel caso di dj Fabo si sono tutte verificate. Nel caso Trentini, invece, proprio quest’ultimo parametro sembrava venir meno. Mansi, per ovviare la questione, aveva chiesto il rinvio dell’udienza per un’ulteriore perizia, utile a dimostrare che Trentini riceveva quotidianamente trattamenti di sostegno vitale, equiparabili all’attacamento alle macchine per la respirazione. Richiesta respinta dalla Corte, secondo cui le prove erano sufficienti. Così il pm ha dovuto procedere alla richiesta di condanna di Welby e Cappato, definendoli «sì colpevoli, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di dover negare». Aiutare Trentini a morire, secondo il pm, fu un atto compiuto «nel suo interesse». Sarebbero mancati, solo, «i presupposti che lo rendano lecito». Ovvero quella norma dimenticata dalla politica. Ma la battaglia, hanno assicurato Welby e Cappato, «continua».