Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha pubblicato un rapporto drammatico sui suicidi nelle carceri italiane. Il documento, curato dal professore Giovanni Suriano, dell’unità organizzativa “Privazione della libertà in ambito penale” dell'ufficio del Garante, presieduto da Felice Maurizio D'Ettore, conferma l'incremento preoccupante del fenomeno.

Dall'inizio dell'anno fino al 20 giugno 2024, 44 detenuti si sono tolti la vita, un dato superiore rispetto ai 34 casi registrati nello stesso periodo del 2023 e ai 33 del 2022. Ricordiamo che nel frattempo si è aggiunto un altro suicidio, e quindi attualmente siamo a quota 45.

La maggior parte delle vittime sono uomini (42 su 44), con un'età media di circa 40 anni. Ventiquattro delle persone decedute erano italiane, mentre le altre venti provenivano da quattordici diverse nazioni. Le fasce d'età più colpite sono quelle tra i 26 e i 39 anni (23 casi) e tra i 40 e i 55 anni (10 casi). Il rapporto del Garante ha analizzato anche la posizione giuridica dei detenuti suicidi. Diciotto erano stati condannati in via definitiva, cinque avevano una posizione giuridica mista con almeno una condanna definitiva, mentre diciassette erano in attesa del primo giudizio. Altri casi riguardavano detenuti ricorrenti, appellanti e in internamento provvisorio.

Per quanto riguarda i reati, la maggior parte delle vittime erano accusate o condannate per reati contro la persona (24 casi), seguiti da reati contro il patrimonio (14 casi) e per legge sulla droga (3 casi). Tra i reati contro la persona, prevalgono quelli per omicidio, maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale. Più della metà dei suicidi (52,28%) sono avvenuti nei primi sei mesi di detenzione, con un picco nei primi tre mesi (20 casi) e nei primi 15 giorni (5 casi). Questo evidenzia una fase iniziale di estrema vulnerabilità per i nuovi detenuti.

Il rapporto ha identificato significativi fattori di fragilità tra i detenuti suicidi. Ventuno di essi (49%) erano coinvolti in altri eventi critici, e undici avevano tentato il suicidio in precedenza. Inoltre, undici persone erano sotto la misura della “grande sorveglianza” e quattro erano sorvegliate anche al momento del suicidio.

I suicidi avvengono in regime chiuso

I suicidi si sono verificati in 33 diversi istituti, che rappresentano il 17,37% delle strutture penitenziarie italiane. Tra gli istituti più colpiti, il carcere di Napoli “Poggioreale” ha registrato il maggior numero di casi (3 suicidi), seguito da diversi istituti con due suicidi ciascuno, tra cui Cagliari, Pavia, Roma “Regina Coeli”, Sassari, Teramo, Torino e Verona. Ma il dato che colpisce è che la maggioranza dei suicidi è avvenuta in sezioni a custodia chiusa (39 casi), rispetto alle sezioni a custodia aperta (5 casi). Ciò rende evidente l'importanza dell'effettiva presenza di un regime “aperto”.

Ci viene in aiuto l'ultimo rapporto di Antigone dove si denuncia – anche a seguito di una circolare del Dap del 2022 a firma del precedente capo Carlo Renoldi– la generale tendenza alla chiusura che si sta verificando nel sistema penitenziario italiano. Nel rapporto si evince che l'analisi della serie storica dal 2019 al 2023 mostra un andamento crescente delle persone detenute assegnate alle sezioni a custodia chiusa, con un picco nell'anno 2022 e un aumento a giugno 2023 di oltre 5.500 persone (da 17.305 a 23.387) e una parallela diminuzione delle persone assegnate alle sezioni a custodia aperta che sono più che dimezzate, passando da un totale di 32.643 nel 2019 per scendere progressivamente a 28.109 persone nel 2022 e a più che dimezzare nei primi sei mesi del 2023 (con un totale di 13.813 persone).

Per comprendere di cosa si sta parlando, partiamo dal fatto che il sistema penitenziario è organizzato in circuiti differenziati, regolati non da leggi dello Stato ma da circolari del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Ci sono i tre circuiti dell'Alta sicurezza, destinati alla detenzione di persone condannate o imputate per reati associativi e di terrorismo, e quelli della Media sicurezza, riservata ai cosiddetti detenuti comuni, che rappresentano la maggioranza della popolazione detenuta. Quest'ultimo è il circuito dove si riscontrano le condizioni più critiche e problematiche.

Negli ultimi anni, tale circuito, ha subìto una ristrutturazione imposta dalla dialettica tra forze che esprimono diverse concezioni, diverse prospettive e interessi divergenti rispetto alla funzione e al funzionamento del carcere. Questa complessa, lenta e tutt'altro che uniforme riorganizzazione ha subito una forte accelerazione durante l'emergenza Covid, diretta da tre linee di tendenza, normate poi da due circolari del Dap alla fine del 2021 (con una bozza mai entrata in vigore) e nel luglio del 2022: il ripristino del regime a celle chiuse; la stabilizzazione del ricorso all'articolo 32 del regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario; un utilizzo "informale" dei reparti di isolamento.

Ci viene in aiuto uno studio pubblicato dal Garante nazionale precedente, che mette in luce la sperimentazione della circolare del Dap. Realizzata da luglio a dicembre 2022 nei Provveditorati di Campania, Lombardia, Sicilia e Triveneto, fotografa i diversi tipi di sezioni presenti (a custodia aperta, a custodia chiusa, a vigilanza dinamica) e mostra una «tendenza verso una riduzione delle sezioni a custodia aperta (passate dalle 434 con 12033 persone assegnate a luglio, alle 390 con 2283 persone assegnate a dicembre) a favore di un aumento delle sezioni ordinarie il cui regime è di fatto chiuso, al di là delle otto ore per le quotidiane incombenze (passate da 608 sezioni a luglio con 8080 persone assegnate a 687 con 15154 persone assegnate a dicembre)».

Una tendenza che, come osservato, rischia di non favorire il percorso di reinserimento del detenuto che la stessa circolare del 2022 dichiara essere il proprio principale obiettivo. Lo studio mostra, altresì, una preoccupante «riduzione delle sezioni a vigilanza dinamica (passate da 232 a 228) con una diminuzione delle persone detenute a esse assegnate (passate da 7026 a 6345)». Infine, lo studio del precedente Garante ha confrontato i dati dell'andamento delle attività effettivamente svolte (e dei relativi spazi) nelle sezioni degli Istituti coinvolti restituendo «un quadro insoddisfacente, in cui appare evidente come – al di là di qualche Istituto che fa eccezione – l'offerta lavorativa, culturale, sportiva, ricreativa e anche scolastica non sia all'altezza delle esigenze della popolazione detenuta».

Lo spiega molto bene anche il recente rapporto di Antigone dove evidenzia che la circolare, nello specifico, pur prevedendo un minimo di otto ore di apertura nelle sezioni ordinarie e un minimo di dieci nelle sezioni a trattamento intensificato, nel definire il regime penitenziario delle sezioni ex art. 32, si limita a prevedere che sia «garantito quantomeno il tempo di permanenza all'aperto nei limiti ordinamentali previsti dall'art. 10 Ord. Pen.», ovvero una permanenza «all'aria aperta per un tempo non inferiore alle quattro ore al giorno».

Secondo Rachele Stroppa di Antigone che ha curato l'approfondimento, sebbene non si stia parlando formalmente di isolamento, risulta evidente una tendenza alla chiusura che caratterizza oggi il sistema penitenziario italiano, in barba ai principi di sorveglianza dinamica che faticosamente si sono imposti a seguito della sentenza Torreggiani. «Alla luce delle nuove disposizioni introdotte, la possibilità di accedere al trattamento e, quindi, di partecipare alle attività (studio, lavoro, attività culturali, sportive e ricreative), sembra sempre più configurarsi come un meccanismo premiale e non già come base fondante dell'intero sistema di esecuzione penale», conclude lo studio