Ferragosto in carcere: è ormai un tòpos della politica. Un rituale. Forse una banalizzazione, almeno rispetto al puntuale e, fino a qualche anno fa solitario, gesto di Marco Pannella, dei “suoi” radicali e degli avvocati, naturalmente. Ma anche i gesti più ritualistici che animati da volontà di cambiamento possono produrre, in modo involontario, effetti utili. Prima di tutto la grande stampa, i grandi media, a cominciare dal servizio pubblico, hanno accresciuto negli ultimi giorni la loro attenzione per l’emergenza carceraria. È la penuria di notizie, si dirà. Anche. Ma non solo.

Nell’epoca del contagio digitale, le idee viaggiano secondo meccanismi di emulazione. Ed è così pure per le idee in apparenza “controintuitive”. E se nell’opinione pubblica, nella moltitudine dei social, si diffonde il messaggio del carcere come dramma, oltre che come luogo in cui isolare i reietti, forse l’azione politica può trovare il respiro che, sul punto, finora le è mancato Può trovarlo il governo. Che ha fatto sostanzialmente cilecca, con un decreto emanato, e poi convertito in legge dalla maggioranza in Parlamento, con il fine prevalente di sbarrare la strada a misure più decise, come la liberazione anticipata di Giachetti e Nessuno tocchi Caino.

Un provvedimento concepito in base all’assunto che non ci fosse bisogno di quell’altra legge, proposta dal deputato radicale di Italia viva insieme con Rita Bernardini. E questo al di là di alcune, rarefatte e comunque marginali norme inserite nel Dl dell’Esecutivo, come la contestuale verifica, in capo al giudice di sorveglianza, dei giorni di “sconto” (maturati cioè in base alla liberazione ordinaria già in vigore dai tempi della sentenza Torreggiani) ogni volta che ci si trovi a decidere su un’istanza di accesso ai benefici: una tautologica vacuità, o quasi: se il problema è che le istanze sono così numerose da accumularsi sulle scrivanie dei magistrati, pure l’ipotetica accelerazione procedurale nel riconoscimento della “liberazione anticipata” andrà a imbottigliarsi nello stesso ingorgo dove già si affollano le migliaia di domande evase in ritardo, così in ritardo da non fronteggiare il flusso dei nuovi giunti e da rivelarsi incapace dunque di contrastare il sovraffollamento, il diradarsi dei percorsi trattamentali e l’inversamente proporzionale progressione dei suicidi.

Ma proprio i dati sulle presenze in carcere sono ormai pane quotidiano nella comunicazione di un soggetto “politico” che potrebbe diventare la sponda, per l’Esecutivo e per il ministero di Carlo Nordio, in grado di favorire una “redenzione” del centrodestra rispetto alla colpevole inerzia sulle carceri. Finora l’Autorità preposta alla vigilanza sulle condizione dei detenuti e di tutte le persone comunque private della libertà personale è stata bersaglio di aspre critiche, per un’iniziale tendenza a sdrammatizzare gli allarmi sul sovraffollamento.

Da alcune settimane, però, l’ufficio guidato da Felice Maurizio D’Ettore ha adottato una puntuale, metodica e costante enfasi nel riferire sulle presenze negli istituti di pena. Lo ha fatto anche domenica scorsa, con il consueto report, basato sui dati dello stesso governo, in effetti, cioè del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Ha ricordato che il tasso di reclusi in eccesso rispetto ai posti disponibili raggiunge l’ormai astronomica quota 131,06%, che in strutture come San Vittore si è messi ancora peggio e si viaggia verso un disumano + 220%. E ancora, che il disagio da eccessiva densità di popolazione detenuta non risparmia gli Ipm, Istituti per i minorenni. Tutte informazioni note a chi legge questo giornale, ma che hanno una valenza particolare, nel momento in cui il mainstream mediatico si allinea, come in questi giorni, alle rare voci costantemente attive sull’emergenza penitenziaria – dai radicali all’avvocatura, da Ristretti orizzonti a giornali come il Dubbio – e rilanciano così, con un significato ben diverso rispetto a un burocratico e inoffensivo report, le stesse notizie dell’ufficio di D’Ettore.

Non solo, perché il presidente del collegio che costituisce l’Autorità – gli altri due componenti sono l’avvocata Irma Conti e il professor Mario Serio – era stato sommessamente chiaro già quattro mesi fa, all’atto di deporre dinanzi alla commissione Giustizia di Montecitorio, nell’ambito delle audizioni sull’affossanda legge Giachetti. D’Ettore aveva detto con chiarezza che se si voleva evitare di veder evolvere in senso ancora più tragico la situazione del sovraffollamento e dei suicidi, a cominciare dall’espiazione ai domiciliari degli ultimi 18 mesi di pena per i condannati che li hanno raggiunti.

Ora, sarà un caso ma, al di là dei wishful thinking un po’ svuotati di senso che il centrodestra in generale continua a proporre – dal trasferimento in comunità dei reclusi con tossicodipendenze agli ormai leggendari accordi con i Paesi d’origine per “rimandare a casa” i condannati stranieri –, il guardasigilli Nordio, nello scorso fine settimana, ha puntato essenzialmente su una chiave, per tenere in vita un barlume di speranza tra i detenuti, e cioè proprio sul passaggio dalla reclusone inframuraria alla detenzione domiciliare ( già previsto per legge ma in gran parte inattuato) dei condannati con un anno o meno di pena residua.

È chiaro che qui entra in gioco il capitolo – noto sempre alla ristretta cerchia dei volenterosi, oltre che al Dap – dei detenuti stranieri, che in realtà saranno rimpatriati, chissà, forse fra qualche lustro, e dei tanti, fra loro, privi di un alloggio in cui scontare i domiciliari. Ma già se il principio fosse tradotto in norma concreta a breve, un po’ di respiro nelle carceri, lo si porterebbe. E chissà che, rotto il ghiaccio, la maggioranza non riesca ad andare avanti con il resto delle doverose misure che lo stesso Garante nazionale, accusato fin troppo spesso, nella prima fase del mandato, di timidezza, ha in realtà messo sul tavolo della maggioranza già la scorsa primavera.