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Il Consiglio di Stato non ha dubbi: la nomina del “vice– de Raho” è sbagliata. Va rivista, e attribuita a un altro magistrato. Ma il Csm non intende recepire la sentenza: la quinta commissione ha già votato la pratica e re– indicato, per l’importante incarico di procuratore aggiunto alla Dna, Maurizio Romanelli. Ha di fatto ignorato le ragioni di Maria Vittoria De Simone, in servizio a via Giulia da quasi due lustri come sostituto. Era stata lei a impugnare davanti alla massima giurisdizione amministrativa la decisione di Palazzo dei Marescialli. Come sempre in questi casi, il Consiglio superiore ignora la pronuncia e tira dritto.
Strano? È una prassi. Consolidata. E come spesso capita con le consuetudini che si stabilizzano, si perde il filo, nemmeno si sa più perché quel metodo si è “istituzionalizzato”. Nel caso dell’organo di autogoverno delle toghe, però, le conseguenze di una simile ostinazione sono tutt’altro che neutre. Vuol dire che vengono ignorate ragioni di coerenza tra i profili dei magistrati scelti per gli incarichi e le funzioni direttive alle quali devono essere assegnati. Con evidenti ricadute sulla qualità del sistema giustizia. Capita che la lettura delle pronunce di Tar e Consiglio di Stato sveli incongruità difficili da contestare. Ciononostante, il Consiglio superiore non cambia mai le proprie decisioni, come dimostra la conferma sistematica delle delibere dopo bocciature analoghe a quella depositata il 5 marzo dalla quinta sezione di Palazzo Spada.
Nello specifico, la magistrata napoletana aveva contestato, nell’impugnazione, due aspetti contraddittori della nomina di Romanelli ad aggiunto della Procura nazionale antimafia, nomina approvata dal plenum il 28 luglio 2016. Ed entrambi gli aspetti della decisione sono stati giudicati effettivamente incongruenti dal Consiglio di Stato. Il primo: nelle motivazioni con cui l’organo di autogoverno ha preferito assegnare all’ex pm di Milano uno dei due posti da procuratore nazionale aggiunto, vi è stata una «palese violazione di legge». Violazione che sarebbe già bastata per annullare la decisione del Csm. Secondo aspetto incongruo e “censurato” dal Consiglio di Stato: alla ricorrente De Simone è stato attribuito un limite quanto a specifica competenza, relativo al fatto che da diversi anni, dal 2009, non conduce direttamente indagini. Ovvio: da quell’anno, appunto, la magistrata è in servizio presso la Procura nazionale antimafia, come sostituto. Quindi non coordina la polizia giudiziaria né fa direttamente indagini per la banale ragione che alla Dna si fa un altro tipo di lavoro: si coordinano le attività di più uffici, di diverse Procure che indagano su fatti correlati, cosa che com’è intuibile avviene di continuo, con la mafia e il terrorismo. Vuol dire che dal 2009 De Simone ha consolidato una competenza che era esattamente quella richiesta per l’incarico di procuratore aggiunto: sa coordinare le attività di uffici diversi. Ha acquisito specializzazione proprio nel lavoro che invece è stato affidato a Romanelli. Il quale invece, prima di ricevere l’investitura da Palazzo dei Marescialli, era stato aggiunto in una Procura ordinaria, quella di Milano come detto, e aveva dunque coordinato la polizia giudiziaria e alcuni sostituti, non diversi uffici inquirenti.
Eppure, giovedì scorso la quinta commissione del Csm ha confermato la scelta del 2016: «Romanelli resti al suo posto». Disattesa la sentenza del Consiglio di Stato. Probabile che il plenum, di qui a qualche giorno, ribadisca il voto della commissione. Che vuol dire? Il punto è la rigidità dello schema: le scelte del Csm sono sempre “definitive”, i precedenti lo dimostrano. Ma lo sono anche perché sorrette, alcune volte, da connotazioni “politiche” prima ancora che di merito. Rispondono agli equilibri tra correnti. E’ il metodo che può preoccupare, per il danno che si rischia di arrecare al sistema giustizia, quando la nomina alla dirigenza degli uffici giudiziari è sganciata dai vincoli del merido e dell’attitudine, che dovrebbero essere i soli requisiti da premiare. Ci sono gli equilibri tra correnti, come detto. Un’alchimia impegnativa. Capita a volte che a magistrati in corsa per incarichi già in qualche modo “definiti” nei “pre– accordi” tra i gruppi, venga sorprendentemente assegnato un altro ruolo direttivo. È un modo elegante ma un po’ forzato, come minimo, di evitare che il collega sul quale ci si è già accordati possa essere “infastidito” da un concorrente forte. Nel caso di De Simone è avvenuto qualcosa di diverso: l’hanno proposta come procuratore a Nola. Vorrebbe dire farle dirigere un ufficio che non ha competenza sui reati di mafia, sulla materia di cui si occupa da sempre. Vorrebbe dire buttare via la competenza di un magistrato, il patrimonio acquisito in anni di lavoro. Una strada lungo la quale si rischia di desertificare la giurisdizione. E come ci si arriva a nomine così “predeterminate”? Innanzitutto con discussioni di merito rarefatte: i verbali dei lavori di commissione sugli incarichi parlano chiaro. Le indicazioni vengono spesso date all’unanimità. Nel caso della nomina bis che ha premiato Romanelli e non De Simone, si è astenuto il solo togato Aldo Morgigni, di Autonomia & indipendenza, la corrente di Davigo. Ora, è vero che questo gioco di ripartizioni concordate c’è sempre stato, tra le correnti. Ma da una decina d’anni il condizionamento politico si è imposto con una irragionevolezza inversamente proporzionale alla ricchezza del dibattito culturale tra i gruppi. Nel caso di De Simone si è ignorato un fatto: la pm che si è sempre occupata del contrasto alla criminalità organizzata ( lo fa tuttora da via Giulia) è stata ritenuta in difetto di competenze rispetto a Romanelli, nonostante i requisiti richiesti per l’incarico di aggiunto fossero esattamente gli stessi che nel 2009 le erano valsi la nomina a sostituto Antimafia. È dal 2009 che ha i titoli giusti. Lo aveva stabilito proprio il Csm. E poi se n’è dimenticato.