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1. Non v'è dubbio che l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di assoluzione e, di conseguenza, la possibilità di una condanna pronunciata per la prima volta in sede di appello rappresentino una grave ed insanabile contraddizione all’interno dell’ordinamento processuale. Premessa necessaria del discorso è che, mentre l'appello dell'imputato trova espresso riconoscimento nell’art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici che garantisce ad ogni condannato il diritto al “riesame della colpevolezza”, l'appello del pubblico ministero non è tutelato né dalla Costituzione, che garantisce solo il ricorso per Cassazione avverso ogni sentenza, né dalle fonti sovranazionali. L'imputato condannato per la prima volta in appello subisce un grave pregiudizio, potendo esperire contro la sentenza solo il ricorso in Cassazione. Anche ad ammettere che il “riesame della colpevolezza”, garantito dal Patto internazionale, non implichi necessariamente una rinnovazione totale del giudizio, resta del tutto evidente che quel “riesame” non possa essere soddisfatto dal solo ricorso in Cassazione: sia perché il controllo del giudice di legittimità verte sulla motivazione della sentenza, anziché direttamente sul tema della colpevolezza, sia perché in terza istanza è esclusa l’assunzione di prove, diverse da quelle documentali. 2. Si obietterà che la Corte costituzionale con la sentenza n. 26 del 2007 dichiarò illegittima la soppressione dell’appello del pubblico ministero. Vero, ma fu una sentenza poco convincente, emanata in un clima politico avvelenato dai processi a Berlusconi. Basti pensare alla clamorosa contraddizione in cui incappò allora la Corte costituzionale. Il ricorso per Cassazione del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione fu ritenuto inadeguato a soddisfare gli interessi dell’accusa; ma, con una stupefacente inversione di prospettiva, il ricorso dell’imputato contro la condanna pronunciata per la prima volta in appello fu, invece, considerato sufficiente a garantire gli interessi della difesa. La discriminazione tra accusa e difesa, a fronte dello stesso mezzo di impugnazione, in spregio alla logica e al principio costituzionale della parità tra le parti, non avrebbe potuto essere più evidente. Nessuno può negare che un’ingiusta condanna sia più grave rispetto ad un’ingiusta assoluzione. Sarebbe, quindi, del tutto ragionevole che l’impugnazione del pubblico ministero contro l’assoluzione fosse limitata al solo ricorso per Cassazione, mentre quella dell’imputato contro la condanna fruisse della doppia garanzia dell’appello e del ricorso. Non riusciamo ad immaginare un solo caso in cui un’assoluzione gravemente ingiusta non possa trovare adeguato rimedio attraverso il ricorso in Cassazione del pubblico ministero. Certo, l’inevitabile vaghezza della formula dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”’ lascia una certa discrezionalità decisoria. Esistono casi limite – i c.d. casi difficili – nei quali la nebulosità dell’aggettivo “ragionevole” consegna di fatto al giudice il potere discrezionale di assolvere quanto di condannare: discrezionalità sta appunto a significare la possibilità di una scelta fra più opzioni, ciascuna del tutto legittima. Questa discrezionalità funge da limite al controllo della Cassazione che, da un lato, è tenuta a verificare se il giudice abbia violato la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, travalicandone i limiti, ma, dall’altro, deve rispettare i margini di opinabilità connaturati alla regola; in altri termini, può sanzionare la scelta del giudice, quando superi quei margini, non quando sia rimasta al loro interno. Ora, proprio nei casi in cui siano ipotizzabili opposte decisioni - in sé parimenti legittime, quindi insindacabili in Cassazione - mentre appare equo che il giudice d’appello possa, in base al proprio convincimento, riformare la condanna in proscioglimento, sarebbe decisamente iniqua l’ipotesi inversa, di riforma del proscioglimento in condanna. 3. Ulteriori motivi di perplessità nei riguardi della condanna pronunciata in secondo grado derivano dal terzo comma dell’art. 111 Cost. che riconosce all’accusato la facoltà, «davanti al giudice, di interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa». Se il giudice, davanti a cui va garantito il diritto alla prova, è il giudice investito del potere di condannare o assolvere, appare incongruo che una condanna possa essere inflitta in appello da un giudice diverso da quello che ha avuto il completo e diretto contatto con le fonti di prova. L’imputato ha sì esercitato il suo diritto alla prova in primo grado; ma in quella sede è stato assolto, mentre a pronunciare la condanna è un giudice autorizzato a decidere sulla base di un esame almeno in parte cartolare o, comunque, anche in caso di rinnovazione della prova, non altrettanto efficace quanto quello svolto in primo grado (la testimonianza perde progressivamente di credibilità con il decorso del tempo e, soprattutto, ad ogni sua ripetizione). Si obietterà che analoghi problemi potrebbe porre, dal punto di vista dell’accusa, la riforma in senso assolutorio della condanna pronunciata in primo grado. Ma, a prescindere dalla circostanza che il diritto alla prova è espresso dall’art. 111 comma 3 Cost. come garanzia dell’imputato, la sensibile differenza è che, mentre la conversione di una condanna in assoluzione implica un’attività essenzialmente demolitiva, la conversione di un’assoluzione in condanna esige un’attività costruttiva per la quale è più che mai importante il rapporto diretto con le fonti di prova. 4. Come rimediare all’anomalia? Le soluzioni possibili sono due. La prima, a mio avviso da privilegiare, è sopprimere l’appello avverso le sentenze di proscioglimento. La seconda, più laboriosa, è trasformare l’appello avverso le medesime sentenze in una fase puramente rescindente, destinata ad aprire per il giudice di secondo grado l’alternativa tra il rigetto dell’impugnazione (id est, la conferma del proscioglimento) e il suo accoglimento; in quest'ultimo caso, la sentenza sarebbe annullata e gli atti restituiti ad un giudice di primo grado per la rinnovazione del giudizio. Resta il fatto che il passaggio da un’assoluzione pronunciata in primo grado ad una condanna irrevocabile implicherebbe ben cinque gradi di giudizio, salvo rinunce dell’imputato: troppi nella logica di una ragionevole durata del processo.