«Questa riforma ha riportato in auge il diritto di difesa. C’è un clima nuovo rispetto a periodi in cui, probabilmente, le procure avevano il sopravvento sulla tutela dei diritti. Ma, per fortuna, è acqua passata». A parlare è
Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla
Giustizia, penalista d'aula, che promuove la riforma del processo penale.
La riforma la soddisfa completamente?
Non è una riforma universale del processo, bensì la sua velocizzazione costituzionalmente orientata. Alla domanda dell’Europa si è data una risposta precisa, ipotizzando una serie di terapie diversificate, tutte tendenti ad un solo scopo: ridurre del 25% i tempi del processo fino al 2026. Per farlo sono stati mutati i criteri dell’archiviazione e del proscioglimento in udienza preliminare, si è ampliato il ricorso ai riti alternativi, rendendoli più appetibili, si è abbandonato il binomio libertà-carcere, per introdurre una serie di sanzioni alternative e più specifiche, privilegiando, quindi, anche la finalità rieducativa della pena. E si è finalmente stabilito che il "fine processo mai" non appartiene alla civiltà giuridica di questo Paese. Si tratta, quindi, di una sorta di ritorno al futuro, di resurrezione efficace della Costituzione.
La mediazione raggiunta contro il fine processo mai le sembra efficace?
Innanzitutto era indispensabile intervenire sulla ragionevole durata del processo, cancellata all'epoca dall’emendamento Bonafede, visto che non chiamerei quella una riforma. La soluzione finale comunque costituisce un enorme passo avanti. Ma a questo quadrante della riforma ritengo sia stata data troppa importanza, ignorando il dato che le altre terapie sono altrettanto fondamentali. Non ritengo, in ogni caso, che la giustizia penale sia il software con cui governare il Paese: il suo perimetro è solo quello di accertare le responsabilità e punire i colpevoli, rispettando i principi della Costituzione. E tornando alla prescrizione, a coloro che l’hanno pesantemente criticata dico soltanto che la prescrizione sostanziale, quella che decorre dal momento di commissione del reato, oggi, nel nostro Paese, ha una durata incredibilmente lunga. Ci sono reati che pur avendo una capacità sanzionatoria medio/alta si prescrivono anche in 20 anni. A ciò vanno aggiunti secondo grado e Cassazione: mi sembra che di tempo ce ne sia abbastanza. Né si può pensare di dover parametrare la ragionevole durata del processo alle disfunzioni ordinamentali e logistiche: bisogna eliminare la patologia, non adeguarsi alla sua esistenza. Un cittadino non può rimanere bloccato da un processo penale per un numero di anni tale da comportare che sia lo stesso processo, e non la sentenza, a diventare la sanzione. Il meccanismo ipotizzato non sarà il migliore, ma certamente consente di mettere un punto fermo. A mo' di work in progress, vedremo durante la sperimentazione se sarà necessario intervenire nuovamente, senza però mai più tornare a quello che c’era.
Rispetto alla prima formulazione della proposta, cosa sarebbe stato giusto far arrivare in aula?
Ho seguito i lavori della Commissione Lattanzi, animata da giuristi di sicura qualità, e il loro contributo è stato assolutamente pregevole. Anche in quel contesto ci sono state opinioni diversificate, ma devo dire che se avessimo, soprattutto su alcuni temi, seguito i suggerimenti della Commissione male non avremmo fatto. È stato un bel confronto, produttivo di reale piacere giuridico.
C’è qualcosa che non la convince?
Si poteva fare certamente di meglio, ovviamente. Ma la riforma è necessaria e urgente, e, come tutte le cose necessarie ed urgenti, ha comportato qualche sacrificio di tutti. Esemplificativamente, un più coraggioso ampliamento dei riti alternativi, apportando così loro maggiore appeal, non sarebbe stato male per alleggerire maggiormente il dibattimento.
Cosa risponde a chi vede come un rischio per la sicurezza ridurre le occasioni in cui la pena coincide con il carcere?
Le misure alternative rispondono meglio alle esigenze di commisurazione della pena al soggetto e al fatto. Ma non ci sono automatismi, bensì la facoltà di applicarle. Si possono ipotizzare tutte le soluzioni possibili in alternativa al carcere, ma ci deve essere sempre qualcuno che le deve ritenere appropriate alla singola fattispecie. È una riforma che, anche in questo frangente, presuppone la massima fiducia nei confronti di chi applica questa regole, cioè il giudice. Il futuro, infatti, passa attraverso un nuovo "patto per la Giustizia" fra avvocatura, magistratura e politica, nella consapevolezza responsabile che, nel rispetto delle condizioni del Paese, non ci devono più essere ostilità "per appartenenza".
Sul Dubbio il professore Pulitanò ha sottolineato che il potere discrezionale del giudice di allungare i tempi di giudizio potrebbe creare problemi di costituzionalità. Come risponde?
Indubbiamente è un compito che, per essere correttamente adempiuto, necessita di una motivazione molto attenta, che tenga conto più dei dati oggettivi che di quelli soggettivi. Un processo con molti imputati può facilmente risultare più difficile da definire in tempi brevi; la perplessità può sorgere se ci si riferisce, per applicare la proroga del termine di improcedibilità, alla complessità delle questioni giuridiche: in tal caso, in base alle verifiche da farsi a regime, potrebbe essere necessaria un’ulteriore riflessione. Ma anche questo risultato è il frutto della mediazione politica.
Alla sessione ulteriore del Congresso nazionale forense lei ha dichiarato che con questo governo l’avvocatura è tornata in Parlamento. In che modo?
Abbiamo scritto una nuova legge sugli esami da avvocato, che con molta probabilità, con qualche correttivo, verrà riproposta l’anno prossimo, visto il buon successo che ha avuto l’esame quest’anno. Abbiamo scritto la legge sull’equo compenso, con l’aggiornamento delle tariffe, che tornerà in aula a settembre dopo un piccolo aggiustamento dal punto di vista delle coperture ed in queste ore prende corpo il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. C’è, poi, la riforma del processo penale che ripristina, in qualche modo, un più corretto rapporto tra giudice, accusa e difesa e in cui quest’ultima vede ripristinati alcuni, fondamentali diritti secondo Costituzione. E soprattutto l'efficienza del processo non è passata dalla riduzione del diritto di difendersi: per migliorare l'offerta di Giustizia, non bisogna di certo ridurre la domanda. Credo così che anche la funzione dell’avvocato rientri tra quei beni che la riforma ha riportato in primo piano, e proprio in virtù di un new deal più garantista.
La magistratura, invece, rimane ancora sul chi va là. Il presidente dell’Anm, Santalucia, ha ribadito l’auspicio che possano aumentare i reati per i quali escludere la prescrizione.
Bisogna stare molto attenti alla "sindrome della lista della spesa". Sarei molto cauto in questa operazione di continua integrazione/riscrittura dell’elenco dei reati, perché ognuno ha la propria sensibilità e si corre il rischio che, integrazione dopo integrazione, l’eccezione diventi la regola, vanificando completamente la disciplina introdotta. Appena in vigore la legge, sarà necessario crederci ed applicarla: vuoi vedere che siamo riusciti davvero a rendere la Giustizia penale migliore?