Un detenuto italiano di 57 anni, con problemi di tossicodipendenza, si è suicidato ieri notte nel carcere di Varese, impiccandosi nel bagno della propria cella. Questo tragico evento porta a 54 il numero totale di suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno.

Includendo anche i suicidi degli agenti di polizia penitenziaria, il bilancio sale a 60 vittime. Il sindacato Uilpa, in particolare il segretario generale Gennarino De Fazio, denuncia questi «numeri pazzeschi, senza precedenti», definendoli «inumani persino per un regime totalitario». Sindacati della polizia penitenziaria e associazioni come Antigone criticano l’insufficienza delle misure governative recentemente adottate, chiedendo interventi più incisivi per affrontare quella che definiscono un’emergenza carceraria. Come riportato, ufficialmente si contano 54 suicidi, ma Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino fa sapere che secondo altre fonti sarebbero 56, poiché altri 2 suicidi sarebbero stati inseriti nei “casi da accertare”.

Mentre è in corso un vero e proprio bollettino di guerra, il nostro Paese si trova al centro di un’altra controversia: la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha infatti emesso una sentenza di condanna contro l’Italia per il trattamento inumano riservato a un detenuto con gravi disturbi psichiatrici, il quale aveva tentato di togliersi la vita ben cinque volte durante la sua detenzione. Nonostante la sua evidente vulnerabilità, A.Z. è stato detenuto in condizioni che non tenevano adeguatamente conto del suo stato di salute mentale. Lo Stato italiano non ha fatto nulla per proteggerlo, nonostante le autorità fossero a conoscenza del suo elevato rischio di suicidio. Per questo motivo l’avvocato difensore Michele Passione ha portato il caso alla Corte europea dei diritti umani e ora giunge la sentenza di condanna.

La vicenda di A.Z., che ha attraversato diverse strutture carcerarie italiane, getta una luce inquietante sulle profonde criticità che affliggono il sistema penitenziario e giudiziario del paese. Nell’arco di poco più di un anno, tra l’agosto del 2019 e il settembre del 2020, A.Z. ha intrapreso un drammatico percorso di autodistruzione, tentando il suicidio per ben cinque volte. Questa escalation di disperazione si è intrecciata in modo perverso con i ritardi burocratici e le inefficienze croniche di un sistema che sembra incapace di proteggere i suoi detenuti più vulnerabili.

La cronologia di questi eventi dipinge un quadro desolante. Il primo atto di questa tragedia si è consumato il 14 agosto 2019 nel carcere di Bari, dove A.Z. ha tentato per la prima volta di togliersi la vita. La stessa struttura è stata teatro di altri due tentativi di suicidio: il 20 settembre 2019 e il 2 gennaio 2020. Questi episodi ravvicinati sollevano interrogativi pressanti sulla capacità dell’istituto barese di gestire e proteggere i detenuti a rischio. La scena si sposta poi a Spoleto, dove il 4 luglio 2020, presso l'Atsm (Articolazione per la Tutela della Salute Mentale), A.Z. ha compiuto il suo quarto tentativo di suicidio. Il fatto che questo gesto estremo sia avvenuto in una struttura specializzata nella tutela della salute mentale dei detenuti è emblematico, ma non sorprende visto le problematiche di queste articolazioni. L’ultimo atto di questa discesa agli inferi si è svolto il 26 settembre 2020 nella struttura di Santa Maria Capua Vetere, dove A.Z. ha tentato per la quinta volta di porre fine alla sua vita. Questo ennesimo episodio, avvenuto in una terza struttura diversa, evidenzia come il problema non sia circoscritto a un singolo istituto, ma sia sintomatico di una crisi sistemica che attraversa l'intero apparato penitenziario nazionale.

Il primo segnale d’allarme si manifesta immediatamente dopo l’inizio della detenzione di A.Z.: i suoi avvocati presentano un’istanza urgente per il rinvio o la sospensione dell’esecuzione della pena, o in alternativa per la detenzione domiciliare, sottolineando le evidenti problematiche psichiche del loro assistito. Tuttavia, il magistrato di Sorveglianza di Bari impiega ben tre mesi per rispondere, disponendo un’osservazione psichiatrica solo il 18 settembre 2019, dopo che A.Z. aveva già tentato il suicidio una prima volta. Questo ritardo iniziale si rivela essere solo l’inizio di una lunga serie di inefficienze. L’osservazione psichiatrica, ordinata a settembre 2019, non viene effettivamente avviata fino al 18 giugno 2020, nove mesi dopo il provvedimento del magistrato di Sorveglianza. Nel frattempo, A.Z. tenta il suicidio altre due volte. Nonostante i numerosi solleciti della difesa e gli evidenti rischi per la salute di A.Z., i provvedimenti giudiziali continuano a subire “gravissimi ritardi” sia nell’emissione che nell’esecuzione.

La situazione raggiunge livelli critici quando, nonostante una relazione del Reparto di osservazione psichiatrica di Spoleto che indica la “scarsa compatibilità” di A.Z. con il regime carcerario, il detenuto viene trasferito a Santa Maria Capua Vetere. Qui, il 26 settembre 2020, tenta il suicidio per la quinta volta, in violazione di una misura provvisoria disposta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che imponeva al governo italiano di fornire ad A.Z. adeguata sorveglianza e trattamenti psichiatrici. La mancanza di tempestività nelle decisioni, unita a una serie di errori burocratici e alla scarsa coordinazione tra le istituzioni coinvolte, ha esposto A.Z. a rischi continui per la sua incolumità, minando gravemente i suoi diritti fondamentali e la possibilità di ricevere cure adeguate.

I rilievi della Corte Europea

La Corte – grazie alle osservazioni sollevate dal difensore Passione - ha rilevato che, nel periodo compreso tra il 4 luglio 2019 e il 3 settembre 2020, le autorità italiane non hanno fornito a A.Z. un trattamento adeguato per le sue condizioni psichiatriche. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno criticato la mancanza di una strategia terapeutica completa e di una supervisione regolare e sistematica del detenuto. La sentenza evidenzia anche i significativi ritardi nel valutare lo stato di salute di A.Z. e le sue esigenze terapeutiche. Ci sono voluti nove mesi per iniziare le osservazioni psichiatriche del detenuto e sedici mesi per ottenere una decisione sulla sua richiesta di scarcerazione. La Corte ha sottolineato che il governo italiano non ha fornito alcuna giustificazione per questi ritardi, considerati eccessivi.

Particolarmente preoccupante è stato il fatto che, durante questo periodo, lo stato di salute di A.Z. è peggiorato notevolmente, come dimostrato dai ripetuti tentativi di suicidio. La Corte ha ritenuto che le autorità italiane non abbiano adempiuto al loro dovere di proteggere la salute e il benessere del detenuto, come richiesto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, la Corte ha anche riconosciuto che, dopo il trasferimento di A.Z. nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 3 settembre 2020, il trattamento fornito è migliorato significativamente. In questa struttura, A.Z. è stato sottoposto a un regime che prevedeva un follow-up di routine da parte di un team multidisciplinare, con incontri regolari con psichiatri e psicologi. La Corte ha notato che, dopo questo trasferimento, la salute di A.Z. è migliorata e non si sono verificati ulteriori episodi psichiatrici acuti.

La Corte ha stabilito che l’Italia ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, per il periodo che va dal 4 luglio 2019 al 3 settembre 2020. L’Italia è stata condannata a risarcire ad A.Z. 10.000 euro per danni morali e 8.000 euro per le spese legali sostenute. Questa decisione rappresenta un importante monito per il sistema carcerario italiano e sottolinea la necessità di migliorare il trattamento dei detenuti con problemi di salute mentale. Il caso di A.Z. mette in luce le carenze sistemiche nel sistema penitenziario italiano, in particolare per quanto riguarda la gestione dei detenuti con disturbi psichiatrici.