Si allontana dalla comunità dove era in affidamento in prova e si consegna in carcere per non lasciare da solo suo padre, 73enne con diverse patologie, condannato all’ergastolo in primo grado. Una storia difficile, disperata, in un contesto familiare disastrato, dove prevale anche un atto d’amore di un figlio che si sente in colpa per la condanna che ha ricevuto il padre. Sì, perché Riccardo Vignozzi – così si chiama il figlio -, un ragazzo di 33 anni con problemi di tossicodipendenza, ha confessato i furti commessi cinque anni fa nelle scuole. Furti che consistevano nel rubare i soldi alle macchinette delle merendine che gli servivano per procurarsi le dosi. Si era dato anche il nome d’arte di Diabolik, firmava così i suoi bigliettini per scusarsi del disagio. Non era stato però l’unico reato. Riccardo era tossicodipendente così come l’altro fratello, condannato a sei mesi per piccolo spaccio - ed era già stato condannato per un altro reato legato alla droga. Quest’ultimo fatto – l’origine della tragedia che portò il padre a commettere un omicidio - avviene nel comune di Carrara, in Toscana. Riccardo era stato sorpreso dai carabinieri con delle dosi di hashish, dopo una perquisizione in casa avevano trovato altre quantità. Non lo arrestarono, ma fu denunciato a piede libero. Uno dei carabinieri, il maresciallo Antonio Taibi, con una operazione congiunta con la polizia, ha monitorato Riccardo – andava a trovarlo molto spesso in casa - fino a coglierlo a spacciare delle pasticche di ecstasy. Fu processato e condannato a tre anni. Il padre, a quel punto, individua il maresciallo Taibi come il principale responsabile dell’arresto. «Lui si era convinto – spiega l’avvocato Enrico Di Martino, difensore di entrambi – che il maresciallo Taibi, con tutte le sue venute in casa, avesse convinto il figlio a spacciare per individuare altri complici, promettendogli che non gli sarebbe stato fatto nulla». Fu per questo che prese la decisione folle di sparargli. E gli sparò, dopo un colloquio sotto il portone dell’abitazione della vittima. Lo uccise.

Era il 26 gennaio del 2016. A luglio dell’anno scorso è stato condannato in primo grado all’ergastolo. «Abbiamo fatto ricorso in appello – spiega il difensore Di Martino –, per chiedere di togliere almeno le aggravanti che lo hanno portato a questa pena altissima». In teoria, Vignozzi, in attesa della sentenza definitiva, potrebbe andare ai domiciliari. Ma una casa non ce l’ha più. «Purtroppo non ho potuto presentare l’istanza – spiega l’avvocato -, perché nel frattempo sua moglie è stata sfrattata non avendo i soldi per pagare l’affitto». Sì, perché la moglie, oltre a essere nullatenente, soffre anche di problemi psichiatrici e ora si ritrova sola, in mezzo alla strada e trova, quando può, rifugio nei dormitori dei sen- za fissa dimora tra Livorno, Pisa e Viareggio. Una situazione che crea problemi anche all’altro fratello di Riccardo, condannato a sei mesi di carcere per piccolo spaccio e, non avendo un domicilio, non può usufruire di nessuna misura alternativa. Nel frattempo Riccardo Vignozzi si ritrova a scontare un cumulo di condanne per un totale di quattro anni e qualche mese. Ne ha già scontati due prima al carcere di Massa e poi a quello di Sollicciano, sempre nella stessa cella con il padre. Riccardo è un detenuto modello, ha studiato e svolto con solerzia tutto il percorso trattamentale. Il magistrato di sorveglianza così l’ha premiato concedendogli l’affi-damento in una comunità terapeutica. «Oltre al percorso tratta-mentale – spiega l’avvocato Di Martino -, il ragazzo si era anche disintossicato e quindi siamo riusciti ad ottenere con facilità questa misura alternativa presso la comunità di recupero di Montecatini Terme». Ma, la settimana scorsa, Riccardo ha deciso di allontanarsi volontariamente, per tornare in carcere a Sollicciano, dal padre malato. Non lo vuole abbandonare e ha deciso di rimanere in cella con lui.