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Come riportato da Il Dubbio, il magistrato di Sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale riguardo all'articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che non consentiva alle persone detenute di svolgere colloqui intimi, compresi quelli a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza la presenza di un controllo a vista da parte del personale di custodia. Tale disposizione è stata contestata in quanto contrastante con diversi articoli della Costituzione italiana e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La Corte Costituzionale ha accolto la questione, ritenendola fondata, e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale disposizione. La sentenza riconosce il diritto della persona detenuta di svolgere colloqui intimi, incluso quelli a carattere sessuale, con il coniuge, dell'unione civile o la persona con cui è stabilmente convivente. La Corte ha basato la sua decisione sulla violazione degli articoli 2, 3, 13 (commi 1 e 4), 27 (comma 3), 29, 30, 31, 32 e 117 (comma 1) della Costituzione Italiana, facendo particolare riferimento agli articoli 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Questa sentenza rappresenta un passo significativo verso una maggiore tutela dei diritti umani dei detenuti, riconoscendo il loro diritto a una vita privata anche dietro le sbarre. La decisione della Corte Costituzionale pone l'accento sull'importanza di bilanciare la sicurezza carceraria con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute. È da notare che la sentenza non solo ha un impatto diretto sulla vita dei detenuti, ma potrebbe anche aprire la strada a una revisione più ampia delle disposizioni normative che regolano la detenzione, mirando a garantire un trattamento più umano e rispettoso della dignità delle persone ristrette. La decisione della Corte riflette l'evoluzione della giurisprudenza nel riconoscere e proteggere i diritti fondamentali, anche in contesti di restrizione della libertà personale.
Il magistrato di Sorveglianza ha giocato un ruolo chiave sulla legittimità costituzionale del divieto imposto a un detenuto di svolgere colloqui intimi. La decisione del magistrato è basata sulla considerazione che il controllo a vista su tali colloqui implica un'autentica restrizione all'esercizio dell'affettività, specialmente in ambito sessuale, per il detenuto. Il ricorso del magistrato di Sorveglianza ha sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale, mettendo in evidenza il presunto conflitto con vari articoli della Costituzione Italiana e della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Tra le questioni sollevate, l'articolo 2 della Costituzione, che garantisce il diritto alla libera espressione dell'affettività, e l'articolo 13, primo comma, che tratta della libertà personale, sono stati particolarmente sottolineati.
Il magistrato ha argomentato che la norma contestata costituisce una limitazione non giustificata dei diritti fondamentali del detenuto. La restrizione, secondo Gianfilippi, violerebbe anche l'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, in quanto andrebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena, mettendo a rischio la stabilità familiare e la salute psicofisica del detenuto. È interessante notare che Gianfilippi ha fatto riferimento a un precedente giudizio di legittimità costituzionale riguardante la stessa norma, conclusosi con la dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate. Tuttavia, il magistrato ha sottolineato le circostanze uniche del caso in esame, poiché il detenuto non può beneficiare di permessi premio e non ha accesso a un programma di trattamento.
Inoltre, il magistrato di sorveglianza ha evidenziato la contrarietà della norma all'indirizzo generale della riforma dell'ordinamento penitenziario, la quale promuove incontri tra detenuti e familiari in un contesto riservato. Questa discrepanza con gli obiettivi della riforma ha portato il magistrato a concludere che la norma è incostituzionale, in quanto viola principi fondamentali di libertà, dignità e tutela della famiglia. Per questo ha sollevato la questione alla Consulta.
Secondo quanto riportato dalla sentenza, la Consulta ha quindi censurato la parte della normativa che imponeva in modo inderogabile il controllo a vista durante i colloqui dei detenuti con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona con cui sono stabilmente conviventi. La Corte ha sottolineato che l'ordinamento giuridico deve tutelare le relazioni affettive delle persone detenute, riconoscendo loro la libertà di vivere appieno i sentimenti di affetto che costituiscono l'essenza stessa delle relazioni umane.
La decisione si basa sulla constatazione che la norma contestata limita irragionevolmente la dignità della persona detenuta, impedendogli di esprimere affettività con persone a lui strettamente legate, anche quando non ci sono ragioni di sicurezza che lo giustifichino. La Corte ha evidenziato come questa restrizione costituisca un ostacolo alla finalità rieducativa della pena.
Inoltre, la Corte ha rilevato la violazione degli articoli 3 e 27 (terzo comma) della Costituzione sottolineando l'irragionevole compressione della dignità umana causata dalla normativa e l'ostacolo alla rieducazione del detenuto. I giudici delle leggi hanno anche fatto riferimento all'articolo 117, primo comma, in relazione all'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cedu), sottolineando il difetto di proporzionalità di un divieto radicale di manifestazione dell'affettività entro le mura.
La decisione ha sottolineato che la maggior parte degli ordinamenti europei concede ai detenuti spazi di espressione dell'affettività, compresa la sessualità, evidenziando la necessità di adottare un approccio più equilibrato e umano nel trattamento delle persone detenute. Nel delineare alcuni profili organizzativi che emergono dalla pronuncia, la Consulta ha auspicato un'azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell'amministrazione penitenziaria. La Corte ha indicato la necessità di affrontare questi cambiamenti con gradualità, tenendo conto delle competenze specifiche di ciascuna entità coinvolta. Infine, la Corte ha chiarito che la sentenza non riguarda il regime del 41 bis, né i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare di cui all'art. 14-bis. Ora è la svolta.