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41 bis
Finalmente è finita l’ingiusta detenzione al 41 bis – durata ben tre anni – del calabrese settantenne Nicola Antonio Simonetta, nonostante la presenza di due sentenze che escludevano la partecipazione al sodalizio mafioso. Una storia denunciata sulle pagine de Il Dubbio e che finalmente, grazie all’interessamento di Rita Bernardini del Partito Radicale che ha sollecitato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ad occuparsi del caso, è andata a buon fine. Il guardasigilli con decreto del 14 gennaio, ha revocato lo speciale regime penitenziario e indicato di trasferirlo in un’altra Casa circondariale dotata dei presidi sanitari necessari alla salvaguardia della salute di Simonetta, vista la sua particolare patologia. L’avvocata difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, ha appreso che lunedì scorso è stato finalmente trasferito dal carcere di Parma dove era recluso in regime duro al centro clinico del carcere di Secondigliano. Finisce così l’incubo per Simonetta di vivere recluso nella frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato senza essere né un mafioso né un terrorista come risulta da ben due sentenze. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn e non curabile in regime duro.
Una situazione singolare che nasce da un procedimento giudiziario molto complesso e che l’avvocata è riuscita, in parte, a decostruirlo in appello. Il procedimento più importante, per il quale Simonetta è stato condannato al 41 bis, riguarda la famosa operazione “new bridge” e prende le mosse da una ampia indagine internazionale, nella quale la Dda di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Fbi americana, ha investigato con lo scopo di mettere a fuoco eventuali collegamenti tra esponenti legati alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York e soggetti italiani legati, o appartenenti, alle famiglie mafiose della ‘ ndrangheta calabrese. L’indagine parte e si concentra intorno alla figura di Franco Lupoi, un italoamericano che vive a Brooklyn, con qualche precedente penale, considerato attiguo alla famiglia dei Gambino, al quale verrà presentato un’agente provocatore, tale Jimmy, che si fingerà interessato a traffici illeciti. L’avvocata Lombardo che difende Simonetta, spiega che tutto l’impianto accusatorio nasce da due fondamentali e mai provati presupposti: uno, che Lupoi appartenesse alla famiglia dei Gambino di New York, ma in dibattimento è emerso che abbia fatto solo da autista per un certo periodo di tempo. Due, che l’agente provocatore Jimmy si “inserisce” in una pianificazione di compravendita di eroina per raccogliere riscontri investigativi, ma, non è mai emersa, né tantomeno è mai stata dimostrata, la realtà di un preesistente traffico di sostanze stupefacenti tra l’Italia e l’America nel quale Lupoi fosse coinvolto.
Cosa c’entra Simonetta in tutto questo? Lupoi è suo genero in quanto ne ha sposato l’unica figlia. La prima severa condanna, poi riformata in appello, nasce dalla convinzione dei giudici di primo grado che Simonetta sia stato il “regista occulto” del traffico internazionale di sostanze stupefacenti organizzato da Lupoi e Jimmy. L’avvocata Lombardo riesce a decostruire l’impianto accusatorio evidenziando che il coinvolgimento emerge sostanzialmente da un unico episodio, datato 20 aprile 2012, in cui Simonetta, Jimmy e Lupoi hanno un fugace incontro di pochi minuti. Le indagini porteranno a monitorare due soli episodi di cessione di sostanza stupefacente avvenuti tra Reggio Calabria e New York tra Lupoi e Jimmy. Da tutto ciò si pianificava che si sarebbe dovuto avviare un intenso e continuativo traffico che però non è mai partito. «Tant’è che nell’inerzia delle parti – sottolinea l’avvocata Lombardo -, le autorità stanche di attendere ulteriori sviluppi, decidono di chiudere l’operazione nel febbraio 2014». In sostanza, in primo grado, Simonetta è stato condannato a 27 anni di reclusione perché avrebbe – pur non comparendo mai – occultamente coordinato il traffico che altri ( Jimmy e Lupoi) stavano organizzando. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che ha derubricato il reato in capo al Simonetta in una mera partecipazione ad una associazione semplice. Ora, per Simonetta, è almeno finito l’incubo del 41 bis.