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Da 66 anni attende di poter mettere le mani sull’eredità lasciatale dal padre. Ma a 80 anni e dopo quattordici processi, Antonietta Caparra Crea non ha potuto piantare nemmeno una piantina su quei 750 ettari in provincia di Crotone che si contende con gli eredi di quattro dei suoi fratelli. Ma dopo decine di sentenze favorevoli, la questione è ancora aperta e l’ultimo processo è fermo da 14 anni davanti alla Corte d’Appello di Catanzaro. Così ha di presentare un esposto al Csm, con il quale chiede di fare chiarezza sul comportamento dei giudici che si sono occupati del caso, rei, secondo la donna e il marito, di aver perso colpevolmente tempo.
Tutto è iniziato nel 1972, con un processo davanti al Tribunale di Crotone concluso a favore della donna, dopo 14 sentenze intermedie. Sentenza impugnata davanti alla Corte di Catanzaro, dove però è ferma da ben 5110 giorni. L’obiettivo degli eredi, secondo la donna, «è quello stancarmi e impoverirmi per rendermi vulnerabile alla loro bramosia». Atteggiamento che avrebbe trovato «campo fertile nella Corte catanzarese - aggiunge -. Ogni volta che un giudice ci dà ragione si ricomincia da zero, con eccezioni infondate di usucapione e prescrizione».
Antonietta e suo marito, ormai ultraottantenni, le hanno provate tutte: dalla protesta con il presidente del tribunale a quella col giudice istruttore, passando per un appello al ministro della Giustizia. E nel frattempo hanno continuato a spendere soldi, osservando quel patrimonio farsi via via più esiguo, da dividere per un numero sempre crescente di eredi. «Abbiamo già speso centinaia di migliaia di euro tra avvocati, perizie e viaggi.
Ne avremo fatti almeno 400 – protestano -. E nonostante tutto non abbiamo mai potuto mettere mano alle risorse che stiamo reclamando. Eppure ci sono tre perizie a nostro favore. Non vogliamo niente di più rispetto a quello che ci tocca, solo la nostra parte». Anche perché, dicono i due, i giudici hanno più volte ribadito il diritto di tutti i figli all’eredità, disponendo la consulenza tecnica per determinare a chi assegnare cosa. La quota della signora Antonietta, però, nel frattempo è passata da 160 a 16 ettari.
«Alla morte di mio padre ero appena tredicenne e quindi alla mercè dei miei fratelli, patologicamente attaccati alla terra e facile preda di avvocati furbetti» racconta. Il processo d’appello è iniziato nel 2005 e per anni è stato scandito da udienze interlocutorie ed inutili, «riservando le stesse domande platealmente infondate e più volte rigettate». Fino ad una sentenza interlocutoria «fuori del diritto», affermano, avendo escluso dalla collazione 533 ettari. «Esclusione illegale, non solo sotto il profilo costituzionale, ma anche perché le donazioni sono state concesse con la clausola donativa come “anticipata quota sulla futura quota legittima”, chiaramente implicante la collazione, totalmente ignorata in sentenza, come se non esistesse, dando luogo ad una sentenza antigiuridica e inqualificabile che favorisce i donatari, abusivi detentori dell’intero compendio dal 1952», si legge nell’esposto.
Una situazione che, dopo 50 anni di contenzioso, ha depauperato le risorse economiche della famiglia. «La Corte avrebbe dovuto emettere sentenza definitiva. In tale modo è stata aperta una voragine processuale, alla mia età incolmabile, ad uso e consumo degli illegali detentori della mia quota legittima, per l’ennesima volta sotto sequestro. È inqualificabile che una elementare causa di divisione conclude la donna - sia trascinata ancora da 14 anni». Per questo la famiglia si è rivolta al Csm, «per stroncare questa assurda oppressione giudiziaria che nega giustizia».