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giustizia
“Spero venga letto con serenità”. Così Leonardo Sciascia chiudeva la prefazione a un libro (A futura memoria) composto a raccolta di alcuni suoi scritti in argomento di giustizia. Sciascia probabilmente si augurava che la poca serenità con cui furono letti i suoi scritti giornalistici sulla giustizia italiana cedesse passo a un atteggiamento diverso - e non si dice di favore, ma almeno più sereno, appunto nell’occasione di quella iniziativa editoriale di riproposizione di quei suoi interventi su giornali e riviste. Ed è altrettanto probabile che quell’augurio Sciascia formulasse, per così dire, con intima riserva: e in profundo con la triste certezza che non sarebbe stato così, e cioè che il tempo pur passato non avesse ottuso le punte di irritazione, di risentimento che già si erano rivolte contro la pubblicazione originaria di quei suoi scritti.
Ancora dopo trent’anni è lo stesso. E non su Sciascia e verso Sciascia, ma su chiunque e verso chiunque si provi a discutere delle questioni di giustizia rivendicando il diritto del cittadino di tenere sott’occhio il lavoro dei magistrati: e di giudicarlo. Il diritto dei cittadini di considerare l’amministrazione della giustizia un servizio, come tale esposto al giudizio civile di chi ne usufruisce e lo subisce: e lo paga. Un servizio: non una missione apostolare. E di considerare chi deve prestare quel servizio un funzionario: non un sacerdote. Chi rivendica questi diritti - et pour cause - passa per bestemmiatore. E si potrà anche dire che a volte la critica a questo o quel comportamento del magistrato è poco serena, dunque contaminata dalla stessa temperie per cui si segnala la reazione. Si potrà anche dire, cioè, che la mancanza di serenità contrassegna tutto il dibattito in argomento. Ma c’è una differenza. E cioè che i destinatari di un’applicazione impropria della violenza giudiziaria hanno tutto il diritto di lamentarsene e di denunciarla anche poco serenamente. Perché non sono in posizione di parità; e chi è soggetto alla pretesa punitiva dello Stato, chi è indagato, chi è processato, soffre per ciò solo una condizione di oppressione che gli attribuisce tutto il diritto di essere poco sereno, e di poco serenamente dolersi se il suo coinvolgimento nell’affare è indebito.
È chiaro che tutto questo non significa in nessun modo contestare al magistrato il potere di giudicare, o che non debbano essere osservati i suoi provvedimenti. Il suo potere di emetterli e il nostro obbligo di rispettarli sono intangibili. Ma quel suo potere e questo nostro obbligo non trasformano una sentenza sbagliata in una buona. Salvo credere che sia buona non per quel che dice ma per il solo fatto che è stata emessa o, peggio, che ad emetterla è stato chi non può sbagliare o, peggio ancora, chi, se pure sbaglia, non deve risponderne in nessun modo. L’idea che il magistrato “sia” giustizia, in modo consustanziale e insostituibilmente, piuttosto che un funzionario che la amministra, è disgraziatamente diffusa e comanda purtroppo tante volte l’atteggiamento di chi è incaricato di accusarci e giudicarci.