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Il fatto non sussiste: è con questa formula che il Tribunale di Roma ha assolto ieri mattina il deputato di Forza Italia Antonio Angelucci, il figlio Giampaolo e altre tredici persone, accusati di far parte un’associazione per delinquere finalizzata a una serie di truffe ai danni del sistema sanitario del Lazio.
Un’assoluzione piena, dopo 16 anni tra indagine e processo, anche alla luce della prescrizione dei reati, nonostante la quale il tribunale di Roma ha comunque ribaltato le richieste formulate dai magistrati, che avevano invocato 15 anni per gli Angelucci e 10 per gli altri imputati, di fatto riabilitando tutti. Secondo l’accusa, gli Angelucci, con l'aiuto di vertici della Tosinvest, dei dirigenti della casa di cura San Raffaele di Velletri e di primari, nonché di due dirigenti della Regione Lazio e dell'Asl, avrebbero ottenuto la liquidazione indebita, tra il 2003 e il 2010, di 163 milioni di euro, attraverso presunte false diagnosi d’ingresso e certificazioni di prestazioni sanitarie non autorizzate. Nel 2009 il Parlamento respinse la richiesta di arresti domiciliari formulata dalla Procura per Antonio Angelucci, arresti che scattarono invece per il figlio Giampaolo e altri indagati.
Secondo la procura, gli Angelucci avrebbero creato un impero politico- mediatico strutturato su tre livelli. Al vertice della piramide, secondo il pm Antonia Gianmaria, c’erano padre e figlio, che attraverso le loro proprietà editoriali avrebbero esercitato pressioni sul Presidente della Regione e sull’assessore alla Sanità per creare condizioni d’impunità nell’attività del San Raffaele di Velletri.
Ad un gradino più basso ci sarebbero stati i dirigenti del gruppo, che avrebbero creato rapporti istituzionali per ottenere provvedimenti favorevoli alla casa di cura. E in fondo il braccio esecutivo, ovvero coloro che si sarebbero occupati delle false documentazioni. Secondo l’accusa, «i due, pur senza rivestire ruoli operativi nel San Raffaele di Velletri e nella galassia societaria cui la struttura fa riferimento, la Tosinvest ( holding di famiglia ndr) esercitavano un controllo diretto delle attività aziendali».
In particolare, «curavano anche le relazioni esterne, con la messa a disposizione della struttura sanitaria per dispensare favori a terzi ( per ricoveri, prestazioni diagnostico- strumentali), con la messa a disposizione ( per consentire rettifiche o smentite) dei mezzi di informazione di loro proprietà editoriale ( oggetto di strumentale evocazione quale forma indebita diretta o potenziale di pressione)» e inoltre, «con l'attività di pressante influenza sulle cariche istituzionali ( il presidente e l'assessore alla Sanità della Regione Lazio) finalizzata ad interferire nella fase di regolamentazione normativa, generale ( attraverso delibere di giunta regionale) o puntuale ( attraverso l'emissione di singole determinazioni)».
Nelle loro arringhe, i difensori avevano sostenuto la mancanza di «alcuna testimonianza a conferma delle imputazioni», né «prove documentali a sostegno dell’impianto accusatorio», al punto che «i testimoni ascoltati sono stati tutti favorevoli agli imputati». Un processo «mediatico», avevano sottolineato, evidenziando come «lo stesso giorno della requisitoria il tribunale ha emesso ordinanza che ha escluso dal processo le relazioni di polizia giudiziaria sulla base delle quali sono state formulate le accuse».
Per Pasquale Bartolo, legale di Antonio Vallone, amministratore del San Raffaele, «è stata un’istruttoria dibattimentale molto lunga spiega al Dubbio - durata quasi quattro anni, durante la quale sono stati ascoltati centinaia di testimoni che hanno dimostrato che il San Raffaele ha sempre svolto regolarmente le sue attività».
Sul banco dei testimoni, nel corso degli anni, sono saliti infatti i pazienti della clinica, che hanno tutti confermato, udienza dopo udienza, «di essere stati curati e anche bene. Erano più che soddisfatti delle terapie praticate e tutti gli altri testimoni ascoltati, dal punto di vista dei profili tecnico- sanitari, hanno ribadito che quello che era previsto si facesse è stato effettivamente fatto». Un processo nato sulla base di un’interpretazione sbagliata di una normativa molto complessa, aggiunge il legale.
«Erano state fatte valutazioni di massima procedendo per grandi linee - sottolinea - e senza andare nello specifico le norme erano state travisate e male interpretate, così come i fatti stessi. Un errore che non riguarda tanto la procura, quanto chi ha svolto le indagini». Del processo rimane un dato pacifico, in attesa delle motivazioni della sentenza: «ad oggi, a leggere il dispositivo, siamo riusciti a dimostrare che la San Raffaele ha sempre operato correttamente. Ci siamo ritrovati davanti ad un Tribunale attento e che ha prosciolto gli imputati nonostante la prescrizione dei reati, dichiarando che il fatto non sussiste. E ciò vuol dire solo una cosa: che è evidente che l’accusa non ha trovato alcun riscontro» .
Antonio e Giampaolo Angelucci, insieme ai dirigenti del San Raffaele di Roma, hanno espresso soddisfazione per una decisione che «conferma il rispetto per la magistratura» nei cui confronti gli Angelucci «hanno sempre avuto piena fiducia, e rafforza il convincimento sempre avuto nella giustizia». Una sentenza, si legge in una nota della clinica, che «restituisce dignità e onore anche alle centinaia di lavoratori del San Raffaele Velletri, che così vedono riconosciuto il loro impegno a favore di migliaia di pazienti», conclude la struttura.