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Giovani Salvi ha un’idea e, per così dire un privilegio. L’idea è la convinzione che «la risposta a fenomeni complessi e gravi come la corruzione andrebbe data attraverso gli strumenti della giustizia penale ordinaria, e non con strumenti eccezionali quali sono le misure di prevenzione» . Il privilegio, per il procuratore generale di Roma, è che prima dell’attuale incarico ha ricoperto funzioni di procuratore della Repubblica a Catania, in un contesto cioè in cui ha potuto valutare i sequestri di prevenzione, e tutti gli strumenti del Codice antimafia, nella maniera più approfondita. È sulla base di tale esperienza che Salvi rivolge un monito. «Ci sono ancora limiti, rispetto alle misure previste dal Codice antimafia, nonostante gli evidenti progressi che la normativa ha compiuto con la recente riforma», spiega il procuratore generale. «Credo si debba innanzitutto riflettere sulla struttura ancora non del tutto adeguata dell’Agenzia per i beni confiscati. Mancano professionalità in grado di assumere la guida delle imprese sequestrate e di assicurarne la sopravvivenza» .
Procuratore, in un recente convegno a Tivoli lei ha dichiarato di non essere convinto che applicare il processo di prevenzione anche ai casi di corruzione sia opportuno. Perché? Intanto va detto che abbiamo ormai strumenti normativi che consentono di ricorrere allo strumento della confisca secondo l’estensione più ampia: penso all’articolo 12 sexies, modificato anche dal nuovo Codice antimafia. Ecco, ma pur in presenza di tali strumenti io mi chiedo se non sia più importante puntare sulla giustizia ordinaria, quotidiana, sul corretto funzionamento della repressione penale. Ci sono problemi che non dovrebbero essere aggirati con il ricorso a misure parallele.
È come se la giustizia penale si dichiarasse impotente? C’è il rischio di una giustizia penale incapace di rispondere correttamente alle attese dei cittadini. È come se si dicesse: visto che non siamo in grado di arrivare alle sentenze di condanna definitive, ci accontentiamo del palliativo dei sequestri. L’eccessiva estensione delle misure di prevenzione potrebbe anche incontrare resistenze nella giurisprudenza della Cedu.
Chiaro. Non si tratta di un problema legato solo ai reati contro la pubblica amministrazione. Se di fronte alle case occupate abusivamente, lo Stato non è in grado di affermare la legalità, ne esce compromesso non solo il diritto di proprietà ma anche quello dei cittadini più deboli a ottenere gli alloggi popolari secondo quanto indicato dalle graduatorie. Fatti che concorrono, tutti, ad accrescere la percezione di insicurezza.
C’è poi un’altra questione: ricorrere a sequestri preventivi contro chi, poi, viene riconosciuto innocente. Con le modifiche al Codice antimafia mi pare che il problema non sussista: le misure vengono applicate non sulla base di sospetti ma di fatti che vanno provati, e cioè per una sproporzione tra il patrimonio e il reddito. Deve poi sussistere un serio indizio relativo al reato fine, ovvero il reato di mafia o di corruzione, in quest’ultimo caso contestato in ambito associativo.
Parliamo però di prove che non si formano in un contraddittorio, come invece avviene nel processo penale. Non è così. Attenti a non confondere: parliamo di prove documentali, quasi mai testimoniali. Il contraddittorio è assicurato, naturalmente in forme diverse da quelle del processo penale.
Davvero ora le norme sono più attente alle garanzie? Ora si può impugnare in appello il provvedimento più significativo, il sequestro appunto. Ed è più rigoroso il rapporto tra procedura e sostanza: ci devono essere indizi, non sospetti, secondo un orientamento peraltro già maturato nella giurisprudenza.
Il Dubbio ha pubblicato due lettere di altrettanti imprenditori assolti nel processo penale ma ancora schiacciati da misure di prevenzione: casi simili ora saranno scongiurati? Non conosco le specifiche vicende, non posso dire se le nuove norme le avrebbero modificate. Certo si potrà ancora essere sottoposti a misure anche dopo l’assoluzione nel processo principale. D’altronde la Cedu ha statuito che la confisca senza condanna, a determinate condizioni e anche per reati di corruzione, è compatibile con la Convenzione dei Diritti dell’uomo. Si tratta in ogni caso di situazioni rare. Ora è stata rafforzata la tutela dei soggetti terzi. Non è la perfezione ma certo un deciso passo avanti. I limiti che ancora vedo sono altri.
Quali? Riguardano la gestione dei beni, relativamente sia alle misure di prevenzione che alle confische. Mi pare ancora insoddisfacente, soprattutto quando il bene è un’azienda. Anche dalla mia esperienza catanese posso dire che prevale un approccio burocratico. Accettabile se si tratta di un immobile, non se si è di fronte a un’impresa, per la quale servono amministratori con ben altre competenze.
Anche perché spesso ci sono di mezzo decine se non centinaia di dipendenti. Dei passi avanti sono stati fatti, ma permangono almeno due profili di criticità. Uno riguarda il funzionamento dell’Agenzia per i beni confiscati: mancano ancora le professionalità specifiche che sarebbero necessarie per passare dalla mera conservazione alle gestione di beni in movimento, come le aziende. Esigenza che può essere soddisfatta solo con la capacità di reagire e decidere in tempi rapidissimi.
Il secondo limite? Dopo il cosiddetto caso Saguto, si è deciso che ciascun professionista non possa ricevere più di tre incarichi. Mi sembra una rigidità inopportuna. Un amministratore deve crescere professionalmente, ed è a motivato a investire su se stesso e sulla propria struttura professionale solo se sa che potrà ricevere altri incarichi. Altrimenti non sosterrà i costi necessari a quel tipo di attività. E poi un rapporto di fiducia tra l’autorità giudiziaria e questi professionisti serve eccome. Certo, se tu conferisci incarichi a chi ti paga mazzette, siamo di fronte a una patologia. Ma queste patologie non guariscono a colpi di norme di legge. Casomai con i controlli, che probabilmente nella vicenda di Palermo sono stati insufficienti.
Il Partito radicale propone di modificare le norme in modo che l’amministratore giudiziario non sostituisca ma affianchi i titolari. Non sono in grado di valutare una simile proposta così su due piedi. Se si tratta di imprese mafiose, i titolari vanno allontanati subito. Rispetto ad altri casi, si potrebbe rispondere solo dopo aver visto tali possibile modifiche nei loro dettagli.